“La chiesa di Notre Dame di Parigi è certamente ancor oggi un maestoso e splendido edificio.” Così esordisce il primo capitolo del libro terzo di Notre Dame de Paris di Victor Hugo. Difficile immaginare di non poterlo più dire senza incertezze: a maggior ragione dopo l’incendio del 15 Aprile, che ha sgretolato la cattedrale sotto lo sguardo afflitto del mondo.
Di riferimenti a Hugo, nell’agitazione generale, ne sono stati tirati in ballo tanti: da profezie sull’incendio, al picco di vendite dello stesso romanzo, al ricordo indelebile di Quasimodo, Esmeralda e Claude Frollo, le cui anime e ombre, nella nostra immaginazione si rincorrono ancora tra le pareti della cattedrale.
E nell’accozzaglia di personaggi, sentimenti, mura, strade, zingari, voci che si susseguono nel romanzo, e che si irradiano tutti attorno all’unica e imponente protagonista gotica, ecco che Hugo riflette proprio sulla sua decadenza, anticipandone forse il destino avverso.
“Questo ucciderà quello!”, profetizza Claude Frollo in un fosco medioevo, aggiungendo: “Il libro ucciderà l’edificio”. Hugo, la cui reticenza non è annoverabile tra i pregi di scrittore, indugia largamente su tale provocazione: da una parte, essa rappresenta il timore e lo stupore di un religioso di fronte all’avvento della stampa, la volatilizzazione del pensiero, non più sottomesso al manoscritto e al pulpito. D’altra parte, che “il libro di pietra, tanto solido e duraturo, stesse per cedere il posto al libro di carta, ancora più solido e duraturo”. In poche parole, la previsione che “la stampa ucciderà l’architettura”.
Hugo sciorina con acume ed eleganza la disquisizione, argutissima, che riscopre proprio nell’architettura il germe di un primo codice linguistico: “l’architettura cominciò come ogni scrittura. Fu innanzi tutto un alfabeto.”
Perché nei millenni che hanno preceduto l’invenzione di Gutenberg, la massima espressione poetica di un uomo è, secondo Hugo, proprio l’architettura: le lettere sono le pietre e su ogni simbolo si regge un gruppo d’idee, come il capitello di una colonna. Cos’era la costruzione di un edificio, se non la confluenza di una legge geometrica e di una legge poetica, in cui l’idea madre si riversava soltanto alla base, ma appariva soprattutto nella forma, ripercuotendosi infine sulla collocazione? “Tutte le forze materiali, tutte le forze intellettuali della società convergevano in uno stesso punto: l’architettura. In quel modo, col pretesto di edificare chiese per la gloria di Dio, l’arte si sviluppava in magnifiche proporzioni. Allora, chiunque nasceva poeta nasceva diventava architetto.”
Ma dal quindicesimo secolo, il libro uccide definitivamente l’edificio. Il pensiero stampato su carta diviene mille volte più imperituro, ubiquitario e indelebile, di qualsiasi edificio. Soltanto la stampa, ai tempi di Hugo (e ancora oggi?), troneggia nella più alta rappresentazione del pensiero umano. L’architettura è piuttosto morta, “irrimediabilmente morta, uccisa dal libro stampato, uccisa perché costa troppo.”
Di certo ci farebbe senz’altro comodo, visti i tempi, una rassicurazione di questo tipo. Chissà mai se riusciremo a leggere (e rileggere) Notre Dame de Paris lasciandoci convincere che la maestria delle descrizioni vivide di Hugo, possano esimerci dalla necessità di attraversare la cattedrale con i nostri piedi.
Forse sarebbe proprio questo, ora, il valore aggiunto dell’opera: leggerla come se Notre Dame fosse ancora lì, come se non fosse mai stata carbonizzata, con la remota possibilità di visitarla ancora integra, un giorno.
E.A.