Rosso / che adesso è lama e cesoia / muro scrostato ombra / che s’allunga e ballarìa / – la zattera dei nomi alla deriva – / occidente spaesato / nel blu della cancellazione, / maria del declinare, / addio.
(Maria Attanasio, “Rosso” da “Blu della cancellazione”, La vita felice, 2016)

Opere esposte nel salone principale del S. Niccolò
La dimensione del viaggio come fuga, incessante ricerca interiore, memoria. E’ tutto qui, il naufragio dell’uomo contemporaneo.
Ho incontrato Fabio Capoccia in occasione della presentazione della mostra “La dolorosa fugga”, tenutasi presso il complesso didattico San Niccolò il 12 giugno 2019, evento in cui sono intervenuti Stefano Aurigi, responsabile del presidio, Donatella Puliga, docente di Civiltà Classiche e di Lingua e Letteratura Latina presso il nostro ateneo, Massimo Bignardi, docente di Storia dell’Arte Contemporanea, e Marta Moschini, responsabile della divisione terza missione dell’Università.

Opere esposte nel piano sotterraneo del S. Niccolò
Un polo vivo, quello dell’ex ospedale psichiatrico – come ha sottolineato Stefano Aurigi, – abitato da sensibilità e figure professionali molto diverse tra loro (se consideriamo la compresenza dei dipartimenti di Ingegneria dell’Informazione e Scienze Matematiche, di Scienze Sociali Politiche e Cognitive ed il Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne).
È una urgenza, quella che Capoccia urla a gran voce, come aveva precedentemente fatto anche in occasione della sua prima mostra presso la stessa struttura, nel 2017, intitolata “May-Day”, titolo basato su un gioco di parole: “May-Day” come “giorno di maggio”, mese in cui venne allestita la mostra e richiesta di aiuto. (opere della mostra sono ancora visibili nella struttura del S. Niccolò, entrate ormai a far parte della vita del complesso)

Opere esposte nel salone d’ingresso al S. Niccolò in occasione della mostra “May-Day”, 2017
Un intricato fil rouge collega queste due esperienze, in cui gli argomenti affrontati sono simili: l’artista si dedica ad un’indagine antropologica e sociale attraverso il tema del viaggio – nella sua accezione semantica più ampia tra migrazioni, trasmigrazioni, umane, fisiche e metafisiche – in cui l’uomo post-moderno è il centro della sua ricerca. Un uomo problematico, metamorfizzato, che ha subito e subisce i cambiamenti del tempo in cui è chiamato a vivere e, di conseguenza, anche grandi cambiamenti interiori.
“Barbarie” è la parola chiave che ritorna nei lavori e nelle riflessioni dell’artista toscano (titolo di due mostre da lui allestite a Roma). Capoccia con il termine “barbarie” allude all’abbrutimento cui è sottoposta la dimensione umana e intima, dovuta all’oggettivizzazione dell’uomo, attraverso processi che vanno avanti da decenni, adesso talmente sotto gli occhi di tutti da sfiorare il ridicolo.
È così che l’autore affronta argomenti caldi, quali la guerra in Siria, le migrazioni nel Mediterraneo, con uno sguardo sempre e comunque rivolto a dei nodi che tornano: una meditazione sulla sofferenza del Cristo condensata in opere che ne rappresentano la Passione, l’interesse per una figura come quella di Ulisse, l’uomo che peccò di hybris, di tracotanza, spingendosi verso l’ignoto.
Le opere, scelte con difficoltà dallo stesso autore (in quanto ogni opera è un figlio che è difficile preferire agli altri), sono collegate tra loro come nel domino: ogni opera è tutto, è sintesi, frutto fortunato di un processo creativo che l’artista mette in atto.

L’artista, Fabio Capoccia
Come lui stesso ha affermato:
«Ogni opera dura una vita. Essa è dentro l’artista, ed è da lui voluta e creata: egli non è altro che un mezzo per metterla a punto».
L’allestimento, dopo una serie di sopralluoghi, è stato curato in collaborazione con Luca Barreca, per costruire una vera e propria architettura che accogliesse le opere senza tralasciare ciò che il San Niccolò è stato nel passato, ossia un manicomio, ricreando un legame con l’Art Brut, come una sorta di propaggine naturale.
Il titolo della mostra, mi racconta Fabio, è nato per caso, l’estate scorsa, durante la rilettura del capolavoro di Giovanni Boccaccio, il Decameron. L’espressione “la dolorosa fugga”, deriva infatti dalla novella di Nastagio degli Onesti (V, 8), in cui una donna nuda, irrompe nella pineta di Classe (RA) inseguita da cani famelici e da un cavaliere per poi essere uccisa – al termine della fuga senza scampo – di fronte agli occhi increduli di Nastagio. Questa la sua pena per essere stata causa del suicidio del cavaliere, perdutamente innamorato di lei ma crudelmente non riamato.
Massimo Bignardi, ha definito la personalità di Fabio Capoccia come capace di dirci molto sull’uomo contemporaneo, ricordando quanto l’esperienza dell’arte non sia mai solo estetica ma anche fondata su una dimensione esistenziale: il riprendere i nodi, il reiterarsi dei segni, indicano la precisa volontà di tornare ancora su questi, riflettere sulle citazioni raccolte durante gli anni di studio, come stratificazioni culturali, fossili di ciò che siamo stati e di ciò che abbiamo amato.
La pittura di Capoccia è intensa, colta e piena di riferimenti, capace di condensarsi in forme allarmanti, che richiamano i forchettoni di Capogrossi, la viva tavolozza fauves, i decoupages di Matisse, la pittura per stratificazioni di Guttuso.
Ha inoltre affermato:
«C’è una novità nel suo linguaggio, quella di aver superato la transavanguardia, di aver superato gli istinti. Fabio ha azzerato la storia per citazioni trasformandola in qualità estetica seriale».

“La dolorosa fugga”, olio su tavole, 370×252 cm
In particolare, in La dolorosa fugga (olio su tavole, 370×252 cm) l’uso dei colori complementari, la distribuzione dei segni che percorrono le tavole, rappresentano il mezzo attraverso cui avviene il primo incontro con l’altro, la mano. La tela è una sorta di monumentale cimitero di mani, che ci ridanno – nel loro muoversi convulso – il senso di aggrappamento fisico alla vita.
Alla fine della presentazione ho chiesto all’autore cosa si sia portato di questa esperienza:
«Spero che sia servita a qualcosa, al di là dell’intima necessità d’espressione. Desideravo costringere il visitatore a ragionare, indagando la realtà quotidiana e sé stesso. Non voleva essere, chiaramente, solo intrattenimento, speculazione. Bisogna superare il concetto di “arte parco-giochi”. Il rischio è di imbattersi in vicoli-ciechi, nel nulla. Sta in questo atteggiamento, a mio avviso, la grande crisi dell’arte contemporanea».
Per conoscere i lavori di Fabio ed essere informati sulle sue mostre: http://www.fabiocapoccia.com/
Alessandra Fichera