Un grande italiano deceduto qualche tempo fa, Umberto Eco, diceva che chiunque voglia conoscere qualcosa lo fa per fare qualcosa. Non esiste una forma di studio fine a sé stessa. Anzi, il caso di chi vuole conoscere per non fare è semioticamente perfetto. Una persona conosce (lo studio) per fare (lo studio). Un nostro interesse si traduce immediatamente in un nostro porci, un nostro “stare in mezzo” a qualcosa (letteralmente, dal latino, inter-esse).
Ma questo non è esattamente ciò che gli ambienti universitari e accademici portano noi studenti a pensare. Pensare cioè che dalle nostre materie di studio possiamo (in quanto diritto) accedere direttamente ai corrispettivi significanti concreti che tali materie hanno significato lungo tutto il nostro (magari sudato) corso di studi. Passiamo anni a studiare significati su significati, diventiamo eruditi ma ignoranti di una realtà fondamentale: ciò che studiamo è (o dovrebbe essere) il mondo in cui ci poniamo.
Nel primo capitolo de “La lingua che ci manca” abbiamo accennato allo stretto rapporto tra stati di cose (o d’animo) e lingua, tra la realtà e il linguaggio con cui la descriviamo. Tanto più il nostro linguaggio e le nostre parole sono consapevoli, tanto più veritiera sarà la nostra rappresentazione della realtà. Ma come si può essere più veritieri? E come, anche scoperto un metodo, possiamo essere sicuri di essere veramente più veritieri?
Se, stando a G. D. Whitney, tutto il lavoro della ricerca linguistica esordisce e dipende dall’etimologia, allora dobbiamo credere, come linguisti (o aspiranti tali), che lo studio etimologico sia una necessaria via d’accesso a ogni tipo di studio linguistico. Per essere più veri nella realtà non serve che essere più veri e consapevoli in ciò che scriviamo, o nelle parole che usiamo nelle interazioni sociali più disparate. Ma in tutto ciò c’è un paradosso: da una parte la legittima e giusta voglia di partecipare più attivamente alla democraticità dei processi sociali, dall’altra l’impossibilità di accedere al linguaggio che tali processi richiedono. Vorremmo e dovremmo avere più parole (ergo più possibilità, più libertà espressiva), ma tali parole sono neglette, dimenticate, o peggio negate.
Perché dobbiamo lasciare alle agenzie pubblicitarie, o (molto peggio) alla corriva, nevrotica retorica politica pre-elezioni il piacere di inventare neologismi? Siamo così socialmente depressi e accidiosi da lasciare che uno schermo o un manifesto non solo indovini perfettamente la sfumatura di emozione che abbiamo in quel momento, ma che pure la confermi, e faccia in modo che noi la confermiamo, anche se il significante trovato è grottesco e imbarazzante?
Non farò una rassegna di tutte le aberrazioni linguistiche che sono state sciorinate in Italia nelle ultime settimane, perché richiederebbe una trattazione molto più folta e metodica di un capitolo della nostra rubrica. Qui ci limitiamo a monitorare lo stato della lingua (nelle sue minime variazioni, nei suoi fenomeni) ma soprattutto, ampliando la questione, della linguistica, e della sua importanza sociale e politica percepita. In altri termini: come la questione della lingua, a più livelli, rientri prepotentemente e urgentemente nella cultura odierna, dalle trattazioni giornalistiche a quelle saggistiche, di più posticci talk show pseudo-politici alle politiche formative più disparate (da una scuola di provincia a una Organizzazione Non Governativa).
Il fattore sociale sotto la lente è l’esasperata auto-riflessione a cui, a ogni livello, siamo portati. Intendo che la comunicazione e l’informazione sono sempre più ambigue, iper-connotata, meta-disciplinate. Parlano troppo di se stesse, invece di parlare di ciò che significano. Musica, cinema, e altre branche della cultura cosiddetta pop stanno diventando sempre più “ambigue”. Il che, come suggerisce il termine stesso, è positivo e negativo al contempo. Da una parte è sintomo della sempre maggiore democraticizzazione dei processi comunicativi: la società civile è sempre più partecipe dei movimenti sociali e politici. Dall’altra, si crea un meccanismo per cui siamo portati a dubitare di tutto. Non c’è libertà creativa perché ogni stimolo, ogni slancio viene immediatamente etichettato, impacchettato, categorizzato. Basta un breve sguardo al web (siti e social network di qualsiasi tipo) per rendersi conto di questa furia “categorizzatrice” portata al parossismo. Un’acribia che assume talora i tratti della paura maniacale: paura di non sapere cosa ci piace e cosa no, e paura di non saper dare un nome alla preferenza e alla non preferenza. All’utile e al superfluo.
Siamo squarciati nella coscienza, tra un’iper-correttezza e una non ben decodificata prudenza dovute al fatto che ci sentiamo sempre costantemente sotto i riflettori (reali o immaginari) della società e dei social (e di noi stessi, del nostro profilo, che ci sbatte continuamente davanti la nostra immagine, con tutto il portato emotivo che essa comporta), e la latente, repressa, passiva aggressività istintiva e giusta che ci porta a pensare il mondo e la società come posti in cui entrare e sbattere le porte, come si farebbe in casa propria, sdraiarsi dove meglio capita, per addentarsi in discussioni futili, amarsi, picchiarsi, svegliarsi la mattina dopo con un triplo caffè per pianificarsi la vita perché ci si è accorti di aver giocato troppo. Un posto in cui avere il diritto allo sbaglio, la tranquillità dell’errore, per avere il diritto e il dovere di ricredersi e cambiare idea, poi, il giorno dopo, rimediando (o non rimediando affatto) in maniera più o meno efficace.
Da libero pensatore, geloso e soprattutto grato della mia libertà di esprimermi in questo paese, non ho remore nell’elevare a oggetto di studio anche fenomeni o elementi appartenente “posticci”, effimeri, commerciali come uno slogan della Sky. “Speransia” è un perfetto campione di un’operazione pubblicitaria di spessore. Proviamo a definire ‘speransia’:
SPERANSIA: quell’emozione che abbiamo quando una forte speranza in una cosa, per una persona o un avvenimento, ci fa provare un senso di agitazione e trepidazione assimilabili all’ansia.
Ma la campagna Sky, promossa dalla famosa M&C Saatchi, ha coniato anche altre tre nuove parole, a mio avviso meno felici di “speransia”, che analizzeremo forse nelle prossime puntate della rubrica.
Leggiamo su BrandNews.it che la campagna ha avuto:
un approccio sperimentale, con l’obiettivo non solo di trasmettere un messaggio, ma anche di creare un linguaggio.
Creare un linguaggio. Qui sta il fuoco della nostra analisi, e uno dei motori precipui della nostra rubrica: trovare la “lingua che ci manca”, capire perché ci manca, e, qualora necessario, colmare la mancanza.
In questo caso la mancanza sono gli stati d’animo, o meglio le peculiari sfumature dell’umore, particolarissime sfaccettature emozionali che non hanno una parola specifica. Quasi fossero emozioni “diverse”, “strane”, troppo “complicate” e per questo non potessero godere di uno status personale, di una carta di identità, per così dire.
“Ci sono emozioni che non hanno ancora un nome” recita ancora la campagna. Ed è vero, e non c’è bisogno di scoprirlo nella pubblicità. Siamo così arretrati, che l’unico luogo dove è possibile esprimere una certa libertà, creatività intellettuale, è l’ambiente commerciale, quello non prettamente finalizzato allo sviluppo delle conoscenze umanistiche, quello non “convenzionale”, quello “non accademico”? La risposta è sì.
Una buona corrispondenza tra parole e cose (eventi, fatti, stati di cose o stati d’animo) è fondamentale per assicurare a noi stessi e agli altri un efficace e veritiero accesso al reale. In questo lo studio etimologico, la curiosità di sapere cosa una parola significa veramente, al di là delle stratificazioni storiche, pragmatiche, sociolinguistiche, è stimolo prezioso e rimedio all’esaurimento di significati. Possiamo definire l’etimologia come un ritorno alle radici di una parola. Come la sezione di una roccia, ne scrutiamo lo scheletro più puro, il tenero soffio con cui una parola è venuta al mondo, e (forse) anche le ragioni per cui tale sbadiglio è avvenuto.
Alcuni ritengono che gli studi etimologici, per loro stessa natura, siano incerti, scientificamente poco attendibili, addirittura fuorvianti; e, soprattutto, non volti a un fine preciso. La confusione metodologica e, potremmo dire, teleologica degli studi etimologici impediscono ai linguisti di schierarsi con sicurezza, e rende il parlante e lo scrittore riluttante ad approfondire troppo la questione. In parte capisco questa incertezza, dall’altra posso intuire come la soluzione sia veramente semplice: dare una finalità allo studio etimologico. Non una finalità vaga e messianica, ma una finalità concreta, di breve o medio termine. Un esempio di tale finalità potrebbe essere:
avere una visione più analitica, più sfaccettata, più profonda di un determinato argomento, di una tematica, magari individuata in un una parola sola.
Quando parlo di una coscienza etimologica di base, intendo la summa di un bagaglio linguistico statico (acquisito con la lettura di opere letterarie), e di uno dinamico (acquisito tramite lo studio e la traduzione di lingue classiche come ad esempio il latino e il greco), con una conoscenza delle principali regole e teorie di linguistica generale. Questa coscienza deve essere implementata e armonizzata da un aggiornamento più o meno costante (ma soprattutto consapevole) delle principali variazioni sociolinguistiche della lingua che si scrive e che si parla. Uno spirito di osservazione e soprattutto ascolto sociale è requisito a priori di questo aggiornamento, che altrimenti diventa un forzata, spettacolare novità, avulsa dal contesto temporale e umano in cui una lingua è necessariamente inserita.
Potrebbe essere un primo sintomo di una certa democrazia linguistica, di un filone di cultura più libero? Forse liberandoci da certe pastoie accademiche (che di inclusivo e partecipativo hanno ben poco) potremmo avere la libertà intellettuale di riflettere attivamente sullo stato della lingua, prenderne parte, e agire concretamente affinché questa cresca, maturi, si adegui meglio ai cambiamenti della società? Finché non penseremo la democrazia linguistica in questi termini, non saremo mai in grado di proporre politiche linguistiche che siano coerenti e internazionalmente approvate. Continueremo a dilaniare i nostri insegnamenti (e i nostri insegnanti) in inefficaci battaglie idiosincratiche, volte a sviluppare questo o quel tipo di linguaggio. Dobbiamo capire che sviluppare un linguaggio non è come vendere un prodotto (ma non è neppure promuovere le inutili tenerezze inventive di un “petalóso”). Non basta un’idea sporadica e geniale; occorre un’identità, l’impostazione (e non imposizione) di una regolamentazione chiara sul tipo di linguaggio e la finalità che esso si propone. E occorre anche pazienza, fiducia nel tempo e nell’humus che questo progetto umano necessita. Una lingua italiana chiara, auto-consapevole, ricca, ricercata ma anche ricercante, che fa dei dettagli, dell’ortografia, della sintassi, delle sue scelte lessicali i mattoni della sua democraticità. La mia speransia, dunque, (e tolgo le virgolette) è che questa tendenza continui, e trovi un sentiero, se non entusiasta, quanto meno non minato, tra le sfere deputate a vagliare e decidere le politiche linguistiche.
La democrazia non può esistere, né come significato né come significante, se non si costruisce un ‘codice’ democratico preciso, intendendo come codice un sistema semiotico coerente, che esiste non in quanto profezia comunicata dall’alto (quale che sia il significato che vogliamo dare a /alto/), ma in quanto, citando testualmente Eco:
la sua esistenza è di ordine culturale e costituisce il modo in cui una società pensa, parla e, mentre parla, risolve il senso dei propri pensieri attraverso altri pensieri, e questi attraverso altre parole.
Silvio Magnolo