Di Tindari, Montalbano ricordava il piccolo, misterioso, teatro greco e la spiaggia a forma di una mano con le dita rosa…Se Livia si tratteneva qualche giorno, una gita a Tindari era una cosa che ci si poteva pensare.
La notizia del ricovero in un reparto di rianimazione dello scrittore Andrea Camilleri, risalente a qualche settimana fa, ha provocato un moto d’affetto e solidarietà nei suoi confronti- oltre ai fiotti di bile dei soliti odiatori da tastiera. Questo perché Camilleri è non soltanto una penna autorevole, ma anche un personaggio che è impossibile non amare alla stregua di un nonno saggio e simpatico.
Simpatia inevitabilmente ispirata anche dal suo più celebre personaggio, il commissario Salvo Montalbano di Vigàta, paese immaginario di una Sicilia reale e vibrante nelle pagine dei romanzi a cui fa da sfondo. Per me, le indagini di Montalbano hanno da anni il profumo della fine degli esami e dell’inizio dell’estate, della pineta e del campeggio, e La gita a Tindari (Sellerio, 2000) è senza dubbio una di quelle che ho amato di più. Perché non proporla, quindi, come primo titolo di questo ciclo di letture sotto l’ombrellone?
La scena si apre, come spesso accade, mentre il commissario Montalbano è addormentato nella sua villetta sul mare: tra il sonno e la veglia percepisce subito che la giornata ha in serbo per lui qualche solenne scassamento di minchia. Quasi subito dopo, infatti, la voce del folkloristico centralinista Catarella gli annuncia il ritrovamento di un cadavere, quello del giovane Nenè Sanfilippo, ucciso da un colpo d’arma da fuoco davanti alla porta della sua abitazione. Ma è soltanto l’inizio: se un corpo si è trovato, infatti, altri due mancano all’appello. Sono quelli, viventi fino a prova contraria, degli anziani coniugi Griffo, che per combinazione o meno vivono proprio nello stesso palazzo del morto.
Inizia così un’indagine lunga e tortuosa nella quale Montalbano dovrà connettere tra di loro i ruoli di diversi attori che forse non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro: amanti, chirurghi, boss mafiosi ultranovantenni -e per farlo sarà costretto ad ascoltare le voci di altrettanti ignari abitanti di Vigàta che hanno preso parte ad una gita in autobus che sembra essere stata l’ultimo posto dove i Griffo sono stati visti vivi: per l’appunto, una gita a Tindari.
Voltò le spalle, niscì. Si taliò torno torno. Non ricordava chi, ma qualcheduno di Chiesa aveva affermato che l’inferno sicuramente esisteva, ma non si sapeva dove fosse allocato. Perché non provava a passare da quelle parti? Forse l’idea di una possibile collocazione gli sarebbe venuta.
Chi è solito leggere i romanzi che hanno come protagonista il commissario Montalbano lo sa: è impossibile non farsi trascinare a pieno nell’atmosfera vivace e surreale che abitano i personaggi, dal fedele Fazio con la sua “sindrome dell’anagrafe”, al vice nonché impenitente donnaiolo Mimì Augello, fino a Catarella col suo linguaggio immaginifico.
Impossibile anche resistere alla musicalità della lingua utilizzata, un siciliano “addomesticato” e reso comprensibile in favore di chi, come me, non lo mastica dalla nascita, senza tuttavia fargli perdere la dolce cantilena che ne costituisce il marchio distintivo. Le parole rotolano nelle orecchie del lettore accompagnandolo per mano nel mistero di una terra difficile, con la quale i rapporti del personaggio e dello scrittore altalenano tra il risentimento e il profondo amore che si riservano soltanto al proprio luogo di nascita, della quale Camilleri non nega le profonde contraddizioni che diventano come sempre accade ingombranti protagoniste del romanzo. I colori e lo sciàuro del mare sono tangibili attraverso le pagine, letti attraverso l’occhio a tratti severo, a tratti goliardico, ma sempre acuto ed intelligente del commissario, il cui umore si risolleva immancabilmente di fronte ad un buon pasto capace di saziare il suo pititto lupigno.
Appena aperto il frigorifero, la vide.
La caponatina! Sciavùrosa, colorita, abbondante, riempiva un piatto funnùto, una porzione per almeno quattro pirsone. Erano mesi che la cammarera Adelina non gliela faceva trovare. Il pane, nel sacco di plastica, era fresco, accattato nella matinata. Naturali, spontanee, gli acchianarono in bocca le note della marcia trionfale dell’Aida.
In mezzo ai colori di questi indispensabili ingredienti si insinua strisciante l’ombra delle più oscure pulsioni dell’animo umano, a volte portando però il lettore ed il commissario a sospendere il giudizio su chi sia la vittima e chi il carnefice nell’infinita giostra di miseria e passioni che anima la recita della vita anche del più insospettabile paesano. Ma non è il caso de La gita a Tindari, in cui quell’ombra si allungherà nel suo aspetto più crudo e bestiale di prevaricazione dell’uomo sull’uomo: mostri con i quali Montalbano ha imparato a convivere ma mai ad arrendersi, conservando intatta l’indignazione, l’empatia, e quel briciolo di speranza che ci qualificano come esseri umani.
Lucia Cherubini