21/09/2021
    HomeAttualitàPaolo e Vittorio Emanuele III re d’Italia, imperatore d’Etiopia, primo maresciallo dell’impero e re d’Albania

    Paolo e Vittorio Emanuele III re d’Italia, imperatore d’Etiopia, primo maresciallo dell’impero e re d’Albania

    Tratto da una storia vera.

    La formula di Eulero rappresentava i numeri complessi in coordinate polari, permetteva la definizione del logaritmo per argomenti complessi e metteva in relazione le funzioni iperboliche con le già note funzioni trigonometriche. Fin qui, tutto chiaro. Ma per quanto riguardava il rapporto tra e, la base dei logaritmi naturali e i, l’unità immaginaria, dovevate chiedere a Vittorio Emanuele III, re d’Italia, imperatore d’Etiopia, primo maresciallo dell’impero e re d’Albania, perché era l’unico che vi avrebbe potuto rispondere a dovere. Purtroppo però Vittorio Emanuele III era morto. Se n’era andato ferito nell’orgoglio, frustrato, e le sue ultime parole non sarebbero mai state dimenticate:
    – Viviamo proprio in un bel porco mondo, – aveva detto.
    Paolo, laureato con 110 e lode in Matematica, vedeva il mondo da un’altra prospettiva. Gli anni passati a Roma, le feste, i viaggi a Vienna con suo fratello, l’analisi e la quantistica l’avevano lentamente rinchiuso in un piano cartesiano mentale la cui ascissa era la conoscenza, l’ordinata la follia. Più si ampliavano le sue conoscenze, più Paolo perdeva i contatti con la realtà.
    Brillante e assetato di conoscenza, Paolo fu premiato con la cattedra di Matematica, che abbandonò dopo appena un anno, spiegando ai più curiosi di essere semplicemente un matematico, e non un insegnante. Continuò a vivere nel suo appartamento a Roma, costruendo ininterrottamente castelli di abiti sporchi e calcoli, indagando sulle funzioni tramite il calcolo integrale e differenziale. A Paolo, infatti, interessava l’analisi, l’indagine, ma chi cerca l’infinito dimentica spesso ciò che ha già trovato, dagli amici alle mutande nella lavatrice. Marisa, la donna delle pulizie che i genitori di Paolo avevano assunto affinché il figlio non sprofondasse nella biancheria, raccontò loro che Paolo era capace di rimanere seduto di fronte ai suoi calcoli per giorni, in silenzio. Usciva per comprare penne e carta e passeggiava per ore. Tornava la sera carico di cibo e libri, tanti libri: dizionari, enciclopedie, romanzi, riviste, carte geografiche e persino orari di bus e treni e aerei.
    Un pomeriggio di marzo nella capitale gonfia di smog Marisa, in lacrime, chiamò i genitori di Paolo, annunciando loro che il professore – così lo chiamava – l’aveva appena licenziata. Carlo, il fratello, lo chiamò da Bologna per chiedergli spiegazioni, e Paolo spiegò con convinzione che le pulizie comportavano una spaccatura epistemologica della sua vita, dedita a cose più importanti di un pavimento pulito e un armadio in ordine.
    Il sessantotto e gli anni settanta non lo avevano cambiato né motivato a desiderare qualcosa che credeva non gli fosse stato ancora concesso. Passava interi pomeriggi alla finestra, a osservare il mondo cambiare, a studiare il tempo, e capì presto che era il tempo ciò che doveva analizzare, perché esso altro non era che l’insieme di tutto, dalla matematica alla storia, dalla religione alla numismatica. E doveva muoversi, perché ciò che avrebbe analizzato era anche ciò che l’avrebbe ucciso. Se ne accorse una mattina di febbraio quando si svegliò solo nella sua stanza, circondato da spazzatura e freddo e da un insopportabile puzzo di morte. Quel giorno compiva trent’anni, 10950 giorni. Gliene rimanevano circa 11982 più una manciata di ore, ma questo non poteva saperlo. L’avrebbe capito all’ultimo istante, quando l’emorragia interna fulminante l’avrebbe svegliato dal sonno senza preavviso.
    Negli anni Paolo perse gradualmente ogni contatto con la realtà, e l’unico appiglio rimastogli era la famiglia. Ogni mese Carlo si presentava alla sua porta, sempre sorridente, e trovava il fratello sempre più vecchio e consunto. Erano quasi coetanei, ma Paolo sembrava invecchiare più in fretta, come se la morte stessa bramasse il suo arrivo. Carlo portava le notizie di un mondo ormai lontano, come fosse un astronauta appena tornato da un lungo viaggio spaziale, e i loro discorsi spaziavano dalla metallurgia all’informatica alle neuroscienze. Carlo lo osservava e lo ascoltava attonito, scorgendo in quella pelle butterata e in quegli occhi di vetro lo spettro inarrestabile della pazzia e della solitudine, la maledizione della vita e l’ingiustizia di un porco mondo.
    In un torrido mezzogiorno di luglio Paolo aprì la porta ansante, guidò il fratello nel piccolo salotto e mostrò lui il progetto.
    La stanza era vuota. C’era solo un tappeto di un metro per due al centro, ma Carlo neanche lo notò, perché si era concentrato sulla linea che Paolo aveva disegnato e che attraversava le quattro pareti bianche e umide, larga un palmo di mano, percorreva il corridoio e imbrattava i muri delle altre stanze. Era una linea del tempo, un segmento che ripercorreva la storia e ogni branca dello scibile e si ramificava su soffitti e pavimenti, e attraversando l’appartamento – mi raccontò Carlo – sembrava di navigare in un mare di conoscenza. – Attento a non calpestare la rivoluzione francese, – diceva Paolo, – è ancora fresca. – E quando vai in bagno assicurati di fare centro, perché intorno al water c’è l’arte contemporanea.
    L’incurabile follia di Paolo si manifestò infine una sera di settembre, quando Carlo lo chiamò alle nove e mezza per annunciargli la morte del padre. Paolo rimase in silenzio, lì alla cornetta, e quando il fratello gli chiese se sarebbe riuscito a prendere un treno per la mattina seguente, lui scoppiò a ridere e disse: – Non lo so. Prova a chiedere a Vittorio Emanuele III.
    Dopo il funerale, Carlo tornò a Bologna e Paolo rimase a Siena, e vi sarebbe rimasto per ventidue anni. I due psichiatri che tentarono di seguirlo presto si arresero, perché Paolo detestava essere analizzato. Nella vita aveva compreso che l’analisi era in definitiva un gioco per folli, un placebo, la soddisfazione dell’insoddisfazione. L’ultimo dottore a visitarlo sarebbe stato l’anatomopatologo in una fredda mattina di un ottobre di vent’anni dopo.
    Sapere di tutte queste cose era stato per me più facile del previsto. Ero appena tornato a Siena, gonfio di ottimismo. Sapete com’è. Sapete che non dovrà accadere nulla di speciale, ma pensate anche che potrebbe accadere qualcosa di speciale. La sola possibilità che possiate essere felici, un giorno, è il miglior anestetico per il dolore. Io portavo con me un dolore, il dolore di una storia finita mesi prima e che vedevo riflesso nelle vetrine delle profumerie e nel fondo della tazza del caffè. Si può dimenticare, dite voi. È vero. Il fatto è che cammino tanto e bevo tanti caffè e non è così facile, per me.
    Era un sera di novembre quando seppi che Paolo era morto. Fu triste, davvero. Speravo di trovarlo una sera in biblioteca o la notte davanti ai locali per domandargli le cose più assurde e ascoltarne le risposte, sorseggiando un cocktail nel freddo inverno di Siena. Perché Paolo, al contrario di quanto tu potessi immaginare, aveva abbandonato nei suoi ultimi anni la solitudine della sua stanza ed era uscito a riscoprire gli altri.
    All’alba era già fuori a passeggiare per i vicoli, freddo o no che fosse. Passava i pomeriggi nelle biblioteche a sfogliare dizionari ed enciclopedie memorizzando ogni giorno nuovi dettagli, nuove storie che, se di buon umore, ti ripeteva meccanicamente la sera quand’eri un po’ sbronzo.
    La sua controversa asocialità lo spingeva nel tumulto del sabato sera, tra la gente, ma il rifiuto categorico di approfondire un qualsiasi rapporto umano aveva anestetizzato la sua sensibilità, l’aveva disumanizzato, e presto Paolo aveva perso per sempre l’interesse per l’immagine, l’interesse per l’interesse stesso, per la pulizia, finendo per trascinarsi dietro un’insopportabile scia di cattivi odori, annientata nella sua mente dall’insopprimibile profumo della conoscenza, che aveva persino soffocato l’olfatto, una conoscenza caotica che l’aveva trasfigurato in una sorta di robot invecchiato dai capelli cinerei, bardato con maglioni damascati che coprivano un cuore ormai di latta e uno stomaco in perenne subbuglio, e il triste oblio vitreo dei suoi occhi tempestati di informazioni non incrociava mai il tuo sguardo, perché alla pietà non era stato concesso il tempo.
    L’avevo conosciuto l’inverno passato, senza sapere che sarebbe stato il suo ultimo. La notte lo incontravo di fronte al Bella Vista o al Cacio e Pere, sempre sulle sue, e mi fermavo a chiacchierarci. Ero affascinato dalle sue enciclopediche conoscenze e lo tempestavo di domande, e le nostre discussioni si riducevano a botta e risposta comici, senza apparente filo logico.
    – Senti Paolone, – gli dicevo, – io ho un problema. Ti prego, ascoltami un attimo. – Lui annuiva e ascoltava, senza smettere di guardarsi continuamente intorno, come se fosse in ritardo per qualche importante appuntamento. – Io e questa ragazza ci siamo lasciati. Lei ora torna a casa ed io pure. Per vari problemi sappiamo già che sarà impossibile rivederci. Ciononostante, continuo a pensare di aver perso la grande occasione della mia vita.
    – Quale occasione? – diceva lui, sorridendo.
    – L’occasione della felicità. La possibilità di essere felice, Paolone.
    Lui scoppiava a ridere. – Ah! Lo dici tu, questo. Lo dici tu.
    – Sì, lo so di non poterlo sapere, però ho il diritto di pensare di saperlo. O no?
    – Chiedi a Vittorio Emanuele III.
    – E cosa mi risponderebbe Vittorio Emanuele III?
    – Non lo so. Va’ a chiederglielo. È nella tomba. Ti direbbe di lasciarlo in pace. Eheheh!
    Tentavo di pilotare i nostri discorsi in una prospettiva razionale, ma fallivo sempre.
    – Lo sapevi che se bevi cento tazze di caffè in quattro ore puoi morire?
    – No, non lo sapevo… però Paolone io vorrei sapere cosa ne pensi di questa storia…
    – Cosa ne penso? Ahahah. Chiedilo ai jihadisti. Se Vittorio Emanuele III fosse vivo, lui lo saprebbe cosa pensare.
    Finiva sempre così, ma era entusiasmante. Quando quella sera di novembre seppi che era morto, dovetti rinunciare all’idea di altre astruse chiacchierate. Paolone era morto, e così quell’amore che pensavo indistruttibile ed eterno, ed era tutto irrecuperabile.
    Per quanto riguarda Paolo, nessuno sapeva niente. Era scomparso nel silenzio, e di lui sarebbe rimasto un penoso articolo sul giornale locale, archiviato e dimenticato. Non potevo accettarlo.
    Fu così che una sera andai a casa sua, nella contrada della Lupa. Sapevo che Paolo viveva con la madre, ma ad aprirmi la porta fu un uomo identico a lui, più magro e in giacca e cravatta. Era Carlo, suo fratello.
    Mi fece accomodare nel salotto su di una delle due piccole poltrone al centro. Di fronte a noi c’era un grande scrittoio in legno massello sormontato da pile di fogli bianchi accatastate con ordine e una statuetta in marmo bianco. Era una riproduzione delle tre donne danzanti della Primavera del Botticelli. Oltre il Botticelli c’era un’enorme katana appesa alla parete, non molto distante da una fedele riproduzione della “Libertà che guida il popolo” di Delacroix. Le altre pareti erano coperte da librerie in vetro che quasi raggiungevano il soffitto. Sembrava di essere circondati da interi plotoni di libri fluttuanti, vivi. – Volevi sapere qualcosa su Paolo, vero? – mi disse Carlo.
    – Sì, – dissi. – Tutto.
    E mi raccontò tutto, dall’inizio alla fine, ed io l’ho scritto. Sapevo che poche pagine non avrebbero mai potuto raccontare una vita, ma ci avrei almeno provato.
    In sessantatré anni, circa 22995 giorni e poche ore, Paolo aveva imparato l’italiano, il tedesco, il russo, un po’ di arabo, latino, greco, aveva letto tre volte la Bibbia, due volte il Corano, imparato a memoria migliaia di date storiche, dalla battaglia di Qadesh del 1280 a.C., che vide contrapporsi l’Egitto ramesside e l’esercito ittita di Muwatalli II, fino all’attentato dell’11 settembre 2001 che vide sgretolarsi le Torri Gemelle; aveva memorizzato i 206 stati del mondo e le loro capitali, da Città del Vaticano a Nagorno Karabakh, sapeva dimostrare tutte le formule più complesse della matematica, aveva letto almeno due volte più di trenta enciclopedie, era persino giunto a formulare le basi di una nuova forma di religione, che smontava tutte le altre e si fondava su un solo semplice dogma che voleva un Dio paziente, silenzioso, in attesa che qualcuno riuscisse a scoprire davvero chi fosse, perché fino ad allora non ci era riuscito nessuno. Sapeva a memoria i più bei versi di Ungaretti e i saggi più taglienti di Voltaire e persino il nome di almeno trecento stelle scoperte dai telescopi terrestri puntati verso lo spazio. La sua personalità empirica non aveva mai preteso di saper rispondere a quesiti di natura esistenziale, perché riteneva che l’unico appiglio rimasto all’uomo del terzo millennio fosse la scienza, l’unica che poteva fornire una prova di ciò che affermava, e che l’astronomia, la snervante ricerca di vita nell’universo, fosse l’ultimo debole refolo della religiosità umana. Spesso, infatti, di fronte a domande come “cosa c’è dopo la morte, Paolo?”, lui s’incupiva e rispondeva sommessamente “non lo so”.
    Solo una volta, mi ricordai, gli chiesi cos’era per lui l’amore, e lui mi rispose: – L’amore è una scienza. È un dato di fatto. La fanno tutti complicata, invece è semplicissimo. Se tu ci vuoi stare, con l’altra persona, quello è amore. Se vi separate e poi volete ritornare insieme, quello è amore. Fine. È una scienza. Se l’ami, l’altra persona, continuerai ad amarla, nonostante le avversità. Se poi finisce, finisce. Ma se non finisce, quello è amore. Prendi i cavalli.
    – I cavalli?
    – I cavalli, sì, i cavalli, prendi i cavalli. Un cavallo è capace di correre fino alla morte. Se tu lo inciti a correre, lui non si fermerà mai. Correrà finché le zampe posteriori non cedono, fino all’infarto. Questo è amore. Se ti senti incitato, agguerrito, corri.
    Quando chiesi a Carlo come fosse possibile che Paolo fosse morto così, all’improvviso, disse che probabilmente l’emorragia interna fulminante era stata conseguenza di ciò che era successo qualche giorno prima.
    Una mattina Paolo era scivolato in Piazza del Campo, era caduto supino, lì nel mezzo della piazza, e per quanto non avesse lamentato dolori, probabilmente qualche organo interno aveva subìto un trauma. Carlo mi raccontò che quella mattina Paolo se n’era rimasto lì, per terra, nel mezzo della piazza vuota, in silenzio, ed era scoppiato a piangere, come un bambino, ricoperto dai suoi enormi maglioni damascati, con le scarpe blu da ginnastica. Quando dei passanti lo videro, lo aiutarono a rialzarsi e lo riaccompagnarono a casa, e l’unica cosa che Paolo seppe dire alla madre fu che aveva sentito il puzzo della sconfitta, il puzzo della sconfitta, mamma, la morte che mi scorreva nelle vene, il tempo che finiva, mamma, il tempo che finisce.
    E poi quella mattina, quando sua madre andò a svegliarlo nella sua stanza, lo trovò immobile, ad occhi chiusi, con una strana smorfia sul viso. Paolo era morto, lì nel suo letto, in silenzio, a casa, lontano dagli sguardi indiscreti di chi lo vedeva vagare per i vicoli di questa città, perché a morire ci si vergogna un po’, è come confessare ad un prete di aver tradito la propria moglie o spiegare a un bambino perché sei tanto triste.
    Quella sera Carlo mi congedò perché doveva tornare dalla madre, che dopo le grida emesse quella mattina di ottobre non aveva più parlato. Lo ringraziai e me ne andai, poi passeggiai un po’ per Siena. Ero decisamente avvilito, perché in poco tempo avevo perso un amore e una conoscenza terribilmente affascinante. Non li avrei più rivisti. Non avrebbero più calpestato questa terra né solcato i mari della mia mente. Il vecchio Paolone aveva corso fino all’ultimo, come un possente cavallo purosangue, e in un’impennata di orgoglio pensai che l’avrei fatto anch’io, Cristo santo, l’avrebbero dovuto fare tutti, correre per un amore, vederlo lì incitarvi sugli spalti e poi magari andarsene, e continuare comunque a correre, come pazzi, fino allo sfinimento, grondanti di sudore, a pezzi, laggiù nell’arena, spietati nelle ossa, vincenti e bollenti come il sangue che scorre nelle vene, correre e correre fino alla fine di questo bel porco mondo e – chissà – magari fino a raggiungere proprio Vittorio Emanuele III, re d’Italia, imperatore d’Etiopia, primo maresciallo dell’impero e re d’Albania, e chiedergli una volta per tutte se sapeva qual era stato il senso di questa assurda folle corsa.

    Vincenzo Reale

    Fallo sapere anche su:




    Nessun Commento

    Area Commenti Chiusa.