Due dati: il rapporto delle donne che frequentano una facoltà letteraria rispetto alla presenza maschile è di 9 a 1. Quando si parla però di ruoli rivestiti a livelli apicali rispetto alle differenze di genere, allora il 95% degli uomini sono rettori di un’università, contro il 5% delle donne. Il fatto è che ad alti livelli, le donne riescono raramente a realizzare una brillante carriera e raggiungere alte posizioni, basti pensare al complicato accesso alle cariche politiche e alla conseguente, discussa manovra delle quote rosa.
E fino a qui, niente di nuovo. Quasi ogni scritto di Simone de Beauvoir propone la questione del modello patriarcale così permeato nelle strutture produttive, nelle relazioni interpersonali, nel pensiero, che risulta difficile prendere le distanze da questa prospettiva anche dopo decenni di femminismo e la conquista di pieni diritti.
Ciò che il professor Pietro Cataldi, rettore dell’Unistrasi, tende a far veicolare è però altro: la presa di coscienza del problema femminile come una ferita tanto sanguinolenta (in termini di opportunità e non solo) pari alla questione della disuguaglianza sociale e al fenomeno della colonizzazione.
Come facilmente intuibile, il problema a monte della questione sulla marginalità femminile in campo letterario è l’accesso alle donne al mondo della scrittura. Eppure, questa banale causa presuppone che alle donne sia stato proibito per secoli di scrivere. Basti pensare alla prima grande scrittrice donna: Caterina da Siena. Per giustificare la sua alfabetizzazione, in quanto la mentalità trecentesca considerava la donna capace di leggere e di scrivere demoniaca, ella è costretta a inventarsi un espediente per sfuggire alla condanna. Dichiara che la scrittura le è stata donata epifanicamente: un sacro dono del cielo piuttosto che frutto di continuo esercizio quotidiano.
Cinque secoli dopo la situazione non è mutata: nell’ ‘800 le donne sono ancora costrette a scrivere di nascosto, tra un impegno casalingo e un altro, senza la concentrazione e il silenzio che solo uno studio, una scrivania, o un semplice angolo può garantire, come denuncerà Virginia Woolf nel suo saggio “A room’s of one’s own”.
È proprio con Virginia Woolf che la questione s’allarga: alla causa di primo grado subentra quella di secondo grado, le molte e più tortuose difficoltà che hanno le donne a vedere riconosciuto il proprio lavoro. Perché quando si parla di Modernismo, si nomina soltanto Joyce, Proust, Svevo, a volte Musil, ma pochi libri di testo evidenziano l’avanguardia stilistica della Woolf? Eppure, è forse in “Gita al faro” che si pone in modo più alto la questione della dissoluzione del romanzo, poi ripresa da Svevo e Gadda nella narrativa italiana. L’avanguardia della Woolf sta tutta nel paragone pittorico col Cubismo: nella sua opera avviene la dissoluzione dei punti di vista, perché non più un’unica voce può tenere insieme il senso della realtà: mai ne viene però rivendicata “l’invenzione” letteraria.
Attraverso un punto di vista straniato, Cataldi ci invita a leggere le grandi opere della nostra letteratura, nella convinzione che cambiare lo sguardo di lettura, e quindi interpretativo, può essere più radicale che immettere nuove figure femminili come oggetti di studio.
Quale sarebbe la trama de “L’Orlando Furioso”, secondo una prospettiva di genere? Un interrotto tentativo di stupro nei confronti di Angelica contesa e rincorsa attraverso tutto il poema dai vari paladini. Gli unici espedienti che ella può mettere in campo per difendersi riguardano l’astuzia, o la magia, ma mai può rivendicare un diritto; non a caso proprio il componimento della “pastorella” indica come all’epoca la violenza fosse culturalmente legittima, alle volte neanche ostacolata dalla vittima stessa, visto il radicamento nella mentalità culturale.
Ecco allora che anche “La Gerusalemme liberata” è investita da un nuovo significato: Tancredi uccide la donna che ama, Clorinda, per risollevare le sorti della guerra tra Mori e Cristiani. La “colpa” di Clorinda sta tutta nella sua contraddizione di donna, nell’ambivalenza di cui si fa portatrice, ora colpevole di condurre sulla strada del peccato (Clorinda stessa è pagana), ora potenziale di vitalità (in quanto Tancredi ne è innamorato). Senza considerare che Tasso compone il suo poema durante la Controriforma, quando, cioè, l’Europa è incendiata dai roghi di presunte streghe, incriminate spesso senza alcun indice di colpevolezza.
Pure ne “La coscienza di Zeno”, opera a noi più vicina non solo temporalmente, la figura femminile appare ancora traviata e spezzata in differenti forme stereotipate. Ada, di cui Zeno è innamorato, ha ancora i tratti della donna stilnovistica, idealizzata e inarrivabile, rappresentante dell’amore puro; oggetto di eros sono invece le prostitute che egli frequenta, prima fra tutte Carla, donne di basso livello sociale, esponenti di quel legame tanto attuale tra sesso e denaro; e infine Augusta, sua moglie, la vestale della stabilità domestica, massaia di un matrimonio stipulato solo per affari.
Torna a galla, allora, quella definizione di letteratura che Fortini ricorda nella voce “Letteratura” dell’Enciclopedia Einaudi tentando di intrappolarla in una definizione, interpretandone quindi la possibile evoluzione. Viene esposta la storia del toro di Falaride: Falaride, tiranno siracusano della Magna Grecia, aveva fatto costruire un toro di metallo cavo in cui nascondere i propri oppositori politici, bruciati poi dalle fiamme che si propagavano attraverso il metallo arroventato. Il toro era però costruito in modo che attraverso la gola le urla straziate dei torturati si tramutassero in piacevole melodia: Falaride si metteva dunque in ascolto, pur sapendo che l’origine di tale suono erano grida di dolore. La letteratura, e l’arte in generale, sono come il toro di Falaride, esiti di una sublimazione che nasconde l’orrore che li ha prodotti. Con il monito che la questione di genere, tra tante, non debba essere semplificata. E la convinzione, nobilissima, che se una parte anche minima dell’umanità viene privata della voce, è l’intera umanità a soffrirne.
EA