Il Novecento ci ha lentamente e drammaticamente condotti ad una serie di svolte epocali che hanno riguardato anche il nostro gusto estetico.
Il secolo breve ci ha resi infatti protagonisti di un’epoca della storia in cui l’intreccio tra la nuova tecnologia e il consumo di massa non solo ha creato le condizioni di esistenza per lo scenario culturale in cui ci troviamo ad agire, ma ha favorito il raggiungimento di nuovi e straordinari esiti in campo artistico.
Tutto ciò ha definitivamente inciso sul nostro modo di interfacciarci con la realtà, così come con i prodotti artistici, che hanno smesso di essere – per definizione – oggetti dotati di valori intrinseci di bellezza e verità.
Il Novecento, grazie all’impulso potentissimo dettato dalle sue avanguardie, ha visto la violenta deflagrazione dell’edificio delle arti precedente, a livello formale e contenutistico, sancendo il tramonto della nozione di “arte borghese”.

Il Crystal Palace di Joseph Paxton, Esposizione Universale di Londra, 1851
Eventi chiave di questo cambiamento sono state di certo le Esposizioni Universali, la prima fu quella del 1851, e si tenne a Londra. I congressi delle scienze, il vasto impulso industriale, le novità registrate in campo tecnologico, la rivoluzione dei trasporti e la creazione di infrastrutture sempre più articolate furono tutti luccicanti vessilli mossi dal vento del progresso che investì l’Europa dei primissimi anni del Novecento.
L’ottimismo positivistico finì però per ritorcersi rovinosamente su se stesso. La stessa scienza che aveva permesso l’evoluzione si prestò come strumento d’innesco per il primo conflitto su scala mondiale.
Scrisse Hermann Bahr in un suo saggio del 1916:
«Mai vi fu epoca più sconvolta dalla disperazione, dall’orrore, dalla morte. Mai l’uomo è stato più piccolo. Mai è stato più inquieto.[…] Anche l’arte urla nelle tenebre, chiama al soccorso, invoca lo spirito. È l’espressionismo».
Quando Bahr pronunciò queste parole la guerra era già scoppiata, la lacerazione avvenuta: non si poteva più tornare indietro.
L’espressionismo nacque allora come movimento di protesta nei confronti dello spirito positivistico, configurandosi nitidamente come arte d’opposizione.
Nello stesso anno l’antimilitarismo dadaista, il suo rifiuto totale delle regole modificò ulteriormente le dinamiche storico-artistiche. Da una neutrale Zurigo si ergeva il grido di giovani artisti e letterati confluiti da tutta Europa che negavano polemicamente il valore dell’arte stessa, opponendovi un nichilismo senza pari. Dada avrebbe dovuto distruggere lo stesso Dada.

Fontana, Marcel Duchamp, 191
La cosidetta – arte concettuale, figlia dei nostri giorni, deriva pertanto da Marcel Duchamp. Egli esponendo nel 1917 “Fontana”, un orinatoio rovesciato posto su un piedistallo e firmato con l’acronimo di “R.Mutt”, dichiarò guerra all’arte, o piuttosto all’opera d’arte. L’intento non era modernizzare ma liquidare: ciò che auspicavano gli artisti del Novecento era infatti, in definitiva, la palingenesi. La filosofia post-duchampiana è riuscita ad influire tantissimo nell’arte contemporanea: grazie ad essa ogni oggetto, sottratto dalla sua dimensione feriale, aspira ad essere opera d’arte.
L’arte contemporanea pone però una serie di problematiche, che la rendono spesso oggetto di scherno da parte di un vasto pubblico, proprio perché incomprensibile.
Se la vecchia, bella, arte figurativa rappresenta un approdo sicuro (quanto meno basta fidarsi dei propri occhi – una Madonna con bambino di Raffaello è quello che è) comprendere l’arte contemporanea, richiede certamente uno sforzo: essa è un linguaggio, ha delle regole e può dar luogo a tantissimi fraintendimenti proprio per la sua grande libertà espressiva. Tale libertà permette infatti di attingere a materiali eterogenei (gesso, sacchi, carta, anche materiali organici) e risemantizzare tagli, plastiche combuste, stracci, oggetti quotidiani.
L’esperienza estetica è legata alla nostra capacità di immediata elaborazione: più l’opera d’arte risulta leggibile – e dunque consente fluidità nell’elaborazione – più soddisfacente sarà il rapporto con essa e positivo il giudizio complessivo. La frustrazione che deriva dalla lettura accidentata di un’opera porta piuttosto a un’esperienza insoddisfacente, un cerchio che non riesce a chiudersi e che conduce al rifiuto totale, nei confronti di quel dato artista o di un periodo in blocco.

Quadrato nero su fondo bianco, Kazimir Malevič, 1915
Abituati all’arte dei secoli passati, intesa come mimesis – imitazione della natura, ma anche riproduzione di un vero spesso nobilitato, ingentilito, non siamo capaci di interfacciarci con l’arte di cui siamo figli – paradossalmente – perché ciò che viene richiesto è un dialogo, in quanto le opere sono la concretizzazione di idee, percorsi. E il dialogo apre lo spazio a una dimensione complessa, comporta la caduta di preconcetti, prevede una messa in discussione critica delle proprie idee, esperienze passate.
Nel 1954, lo psicologo e storico dell’arte, Rudolph Arnheim pubblicò Arte e percezione visiva, uno studio supportato dall’approccio gestaltista. Dal testo emerge che la lettura di un’opera, nel suo complesso, come nelle sue singole parti, sia dettata dalla conoscenza di un vero e proprio lessico di base, una sorta di “grammatica visiva”.
Egli parlò inoltre della “teoria dell’espressione“, secondo la quale un oggetto d’arte esprimerebbe una serie di caratteristiche dirette. Un colore o una forma sono capaci di esprimere in maniera immediata dei contenuti semantici. La funzione psicologica degli oggetti è quindi di tipo espressivo. Le qualità strutturali hanno valore fondamentale in quanto veicolo esse stesse di significati emozionali. (Non molto lontano da quanto era stato teorizzato in pittura da Kandinskij, che si occupò di studi specifici sulle forme, sui colori e sui significati assunti dai vari abbinamenti tra questi.)
Nell’arte contemporanea ciò che viene a mancare sono le coordinate fisse (parametri quali bellezza, qualità,…) ormai smarrite, a favore di una ricerca continua, personale, intima, contraddittoria. Forse il vero criterio cui poter fare riferimento, nell’approccio all’opera, è l’intuizione, un’attenzione sensibile.

Giallo, rosso e blu, Vassilij Kandinskij, 1925
Ricordando quanto scrisse Kandinskij in Dello spirituale nell’arte (1912):
«Ogni opera d’arte è figlia del proprio tempo, e spesso è madre della nostra sensibilità»,
il mio invito è dunque quello di non liquidare aprioristicamente l’arte dell’oggi per la mancanza di strumenti concettuali adatti a comprenderla, ma piuttosto di forgiarli lentamente, lasciando che l’opera ci parli, disarmandoci. La visione diretta delle opere/installazioni, la lettura di testi e articoli in merito, la frequentazione di mostre e musei, senza quella “paura della soglia”, è il primo passo per vivere intensamente il nostro secolo, il nostro mondo, riconoscerne bellezze e contraddizioni – restare sorpresi.
Alessandra Fichera