21/09/2021
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    Sei mesi in Irlanda e quella domanda difficile: “Where are you from?”

    Dopo la laurea magistrale avevo un’unica certezza riguardo l’immediato futuro: approfittare della possibilità di svolgere un Erasmus for Traineeship. 

    Dopo il lungo percorso di selezione, scelta e vincita della borsa, ad ottobre sono finalmente riuscita a realizzare il mio progetto: sei mesi in una ONG nell’Irlanda più vera, nella città di Tralee, 30mila abitanti per il capoluogo della contea d Kerry a due passi dall’oceano Atlantico, in un panorama da togliere il fiato quasi sempre adornato dalla classica pioggerellina irlandese (che sa però anche diventare tempesta o dissolversi, per regalare delle improbabili giornate ricche di sole). 

    Non è mia intenzione spiegare i punti di forza di un progetto come questo, molte volte sottovalutato o addirittura sconosciuto rispetto al più famoso “Erasmus for studies”, no quello che vorrei raccontare qui è una parte della mia esperienza di lavoro che tanto ha dire riguardo alla situazione in cui versa il nostro paese. 

    I miei sei mesi si sono svolti all’interno di una organizzazione non governativa che si occupa di integrazione e aiuto per tutte le comunità internazionali presenti nella città: richiedenti asilo, rifugiati e migranti (con una attenzione particolare alla comunità rom), che da almeno dieci anni animano questa zona essendone diventati parte integrante. I miei studi e qualche altra esperienza di lavoro, mi avevano ben preparato a questa esperienza, non mi ero però resa conto di quanto questo lavoro mi avrebbe portato ad interrogarmi su me stessa e sull’ambiente che rappresento. Lavorare con tante nazionalità fa sì che la semplice domanda:  

    “Where are you from?”

     diventi in fretta una domanda importante, molto più che banale, perché la propria nazionalità trasmette subito tanto ai nostri interlocutori. 

    Affermare di “essere italiani” ha il suo peso e suscita nel proprio interlocutore reazioni diverse, questo l’ho sempre saputo, ma condividere i miei giorni con persone provenienti dalle più svariate parti del mondo, dall’Europa al nord Africa ma anche dall’Africa subsahariana, passando per l’Asia e infine anche dall’America latina ha portato alla luce svariati modi di rapportarsi alla mia appartenenza geografica, in questo corollario di umanità differente. 

    Ed è proprio su questo che vorrei concentrarmi: lavorare a contatto con l’altro mi ha portato ad interrogarmi sulla storia del mio paese, sulla strada che stiamo percorrendo, sul come veniamo percepiti dal resto del mondo, da quel mondo che molti di noi vorrebbero tenere sempre più lontano. E devo dire che il risultato è stato tutt’altro che piacevole. Affermare la mia italianità suscitava nelle persone con cui mi rapportavo sguardi sognanti al pensiero di ciò che l’Italia rappresenta storicamente nel mondo: il buon cibo, le belle città, l’arte, la moda, il calcio, il clima mite e i tanti bei motivi per i quali ci siamo fatti una grande reputazione all’estero. Terminato questo primo impatto però gli sguardi sognanti si dissolvevano e sui visi compariva la preoccupazione, la voglia di sapere se effettivamente le cose stessero andando così male nel nostro bel paese: in un mondo globalizzato l’informazione viaggia molto più velocemente di quello che si possa pensare e così anche una popolazione come quella irlandese, estremamente preoccupata dai risvolti della Brexit, è informata sulle nostre difficoltà; i richiedenti asilo arrivati in Irlanda magari anche dopo una prima breve tappa in Italia non hanno nascosto la preoccupazione per quanto sta accadendo nel nostro paese, “vicini di casa” a est e a ovest spiegano perché abbiamo preferito trasferirsi in un paese di cui  non conoscono la lingua piuttosto che tentare la fortuna nei paesi “confinanti”… insomma la mia italianità non reggeva la prova della storia e per questo le varie umanità con cui mi sono rapportata guardavano, e guardano,  al nostro paese con occhi e molto diversi e con preoccupazione per la strada che stiamo percorrendo. 

    Così interrogandomi su cosa oggi volesse dire l’essere italiani, agli occhi di quelle fette di mondo con cui ho condiviso questi sei mesi, mi sono resa conto che c’è molto poco da essere orgogliosi: il baratro nel quale stiamo sprofondando è ben noto agli occhi di chi ci osserva e quell’ammirazione che ha contraddistinto a lungo il nostro paese oggi sembra sempre più sgretolarsi davanti alla condanna e alla sorpresa di fronte alla conferma che sì, la mia nazione è tutt’altro che sana. 

    Così nonostante continui a ritenermi fortunata ad essere italiana, come cantava Gaber, è in dubbio che questi sei mesi mi abbiano fatto riflettere molto sul come questo paese sia visto e raccontato all’estero  non dalla stampa, dai governi “nemici” ma da quella gente comune che tante volte mi ha spiazzato con domande semplici riguardo la nostra condizione economica: “Che succede all’Italia? Al tg parlano di recessione… ma che vi succede?” ; l’odio che anima molti di noi: “Ho tanti amici in Italia, richiedenti asilo come me… mi dicono che l’Italia è bella però è difficile, la gente non è come qui…”; il rifiuto, la chiusura, l’incompetenza: “Ho letto che i vostri ministri non hanno nemmeno una Laurea… non è vero, no?”; la disumanità che molta di quella gente comune ritiene impossibile da associare al paese del buon cibo, del sole e dell’amore… (Questi sono solo alcuni banalissimi esempi di domande che settimanalmente mi venivano poste). 

    Sono stati sei mesi incredibili, dal punto di vista lavorativo e umano, ma sono stati anche sei mesi in cui ho imparato che “essere italiani” oggi, ha un sapore diverso,  e non mi piace per nulla. 

    Chiara Bertoldo 

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