Recentemente, avendo esaurito le serie da guardare su Netflix e data la mia fissazione tutta nuova per i documentari, ho deciso di dare una sbirciatina ad un titolo che già da qualche giorno cercava di tentarmi nella selezione proposta dalla piattaforma: Trump: an American Dream, serie documentario di quattro episodi originariamente creata da 72 Films per Channel 4 (UK). La sbirciatina si è quindi trasformata in una visione attenta e curiosa, sia per la mia parziale ignoranza dei fatti narrati, che alla cronaca italiana sono arrivati soltanto in parte e che iniziano in anni nei quali non ero ancora nata, sia per l’efficacia della serie nel costruire una narrazione che non può non tenere avvinti allo schermo quasi si trattasse di una fiction scritta particolarmente bene: non è però finzione ma realtà e questo, insieme all’innegabile interesse che il protagonista suscita nello spettatore, accresce ulteriormente il fascino della storia.
Ma andiamo per ordine: le quattro puntate della docuserie ripercorrono essenzialmente quattro decadi della vita di Donald Trump, dal primo ingresso nel mondo dell’edilizia newyorchese sulle orme del padre fino alla candidatura a Presidente degli Stati Uniti. Il racconto si muove alternando prime pagine di giornale e spezzoni di programmi televisivi dell’epoca con interviste di nemici, amici, sostenitori e detrattori del businessman riuscendo a ricostruire, più che la vita di un uomo, la nascita di un personaggio -che, al netto di tutto ciò che oggi sappiamo o abbiamo sentito dire su di lui, al netto delle dichiarazioni omofobe, razziste, imperdonabili, non può che risultare a suo modo straordinario.
Se consideriamo infatti questo termine per ciò che letteralmente significa, e quindi bizzarro, anomalo, fuori dal comune -parole che non hanno del resto un’accezione necessariamente positiva- Donald J. Trump non può che corrispondere perfettamente a tutte queste caratteristiche.
La serie non trascura niente, a partire dalla relazione del giovane Donald col padre, senza dubbio ammirato e probabilmente un tempo temuto, e dal forse inconfessato desiderio di superarlo arrivando a costruire innanzitutto a Manhattan, dove Fred Trump non si era mai spinto, e soprattutto a costruire per i ricchi, nella costante ricerca di immobili sempre più grandi e sfarzosi. Come per i bambini, infatti, per Trump Junior “grandezza” sembra ancora equivalere a “potenza” e “ricchezza” ad uno stile nel decorare gli interni che farebbe impallidire il più zarro dei Casamonica.
Nonostante le apparenti difficoltà iniziali lo spettatore assiste, appassionandosi, alla crescita di questo giovane uomo carismatico non soltanto nel mondo dell’edilizia ma nella cultura pop, in una parabola che continua imperterrita a salire anche allo spostarsi delle sue attenzioni da New York ad Atlantic City. Là Trump apre due casinò che producono continui profitti, inizia ad ospitare match di boxe che attirano spettatori da tutta l’America, e sembra essere diventato inarrestabile: ma è proprio l’acquisto del terzo casinò, l’enorme ed incompiuto Taj Mahal, che apre uno squarcio sull’enorme quantità di debiti accumulata dall’imprenditore, che sembra non poterne uscire senza subire pesanti danni economici e d’immagine.
Contemporaneamente, anche la sua vita privata viene messa sotto la lente d’ingrandimento. Nell’arco di quarant’anni infatti Donald Trump colleziona tre mogli e cinque figli ma è in particolare la rottura con la prima, Ivana, a fare scalpore sui tabloid e le tv statunitensi. Ivana Trump infatti era diventata a tutti gli effetti un personaggio pubblico, una “first lady” coinvolta direttamente negli affari del marito, compresa la gestione di uno dei casinò e dell’Hotel Plaza a New York, acquistato dal marito per una cifra miliardaria -forse, insinuano i maliziosi, per ripotare Ivana lontano da Atlantic City, dove lui era intento a coltivare la sua relazione con l’amante e futura seconda moglie Marla Maples.
- Donalnd Trump con la prima moglie Ivana
- …con la seconda moglie Marla
- E infine eccolo con la first lady Melania
Vanità, megalomania, valori discutibili (o mancanza degli stessi), narcisismo e un abbondante pizzico di sociopatia intesa nel senso psichiatrico del termine sembrano essere gli ingredienti principali di questa miscela esplosiva, insieme ad un’apparente incapacità di tracciare dei confini per il proprio ego, tanto da doversi trovare a scontarne le conseguenze. Parallelamente a questo colpisce in Donald Trump la capacità di venirsene fuori con soluzioni brillanti a problemi apparentemente insolubili, di comprendere che non conta tanto ciò che si dice ma come lo si dice, di creare un brand ed un modello che incarnano i sogni di milioni di americani, nonché l’indiscutibile bravura nel reinventarsi continuamente.
Gli altri segreti del suo successo? Apparentemente buone conoscenze, avvocati spietati e una massiccia dose di imprevedibilità: la stessa che tiene incollati allo schermo a chiedersi che succederà? Come se la caverà questa volta? Perché siamo onesti: da questo lato dell’Oceano sappiamo perfettamente dov’è arrivato Donald Trump ma non come ci sia arrivato e a che prezzo.
Prezzo che, in ogni caso, sembra non essere mai abbastanza salato: Trump finisce per uscire pulito dal disastro finanziario provocato dal Taj Mahal (a differenza dei lavoratori non pagati e delle centinaia di famiglie messe in mezzo ad una strada dal fallimento del casinò) e anche dal primo divorzio, senza perdere neppure un briciolo di smalto e anzi forse ricevendone una lettura ancora più distorta della realtà.
Quella a cui assistiamo nell’arco di quattro puntate, nelle quali il protagonista sembra vivere più vite di quelle che sono concesse ad una persona “normale”, è anche una metamorfosi: dal giovane Trump della prima puntata, che nelle interviste mostra intelligenza e una certa sobrietà nella scelta di parole ed atteggiamenti, al magnate-star dell’ultima, intossicato da fama e ambizione, aggressivo con l’interlocutore e maestro nel parlare senza dire niente; soltanto pochi elementi continuano a farcelo inevitabilmente riconoscere, tra cui il taglio di capelli e il completo scuro con cravatta rossa, veri e propri marchi di fabbrica di quello che diventa un autentico personaggio.
Sono anche coloro che intervengono nei diversi episodi, intervistati dagli autori, a tracciare la storia di una personalità che, sebbene partisse da un chiaro desiderio di espansione e potere, ha finito per esplodere travalicando il confine della gestibilità. Una su tutte Barbara Res, direttrice dei lavori di costruzione della Trump Tower – sì, una donna: ve lo sareste mai aspettato?- che racconta come il Donald che conosceva, sicuramente ambizioso ma aperto al confronto tra pari, sembri essere scomparso nel momento in cui il suo nome è stato esposto sul gigantesco grattacielo ormai terminato.
Ci vogliono una decina d’anni all’impero Trump per riprendersi completamente dal terremoto subito alla fine degli anni ’90, ma il nuovo millennio offre a Donald la soluzione su un piatto d’argento: si tratta del reality show The Apprentice, di cui diventa la star indiscussa, incarnando a tutti gli effetti il volto dell’uomo “che ce l’ha fatta”.
E, se vi state chiedendo come sarebbe cambiata questa storia in era social, non dovete aspettare molto per avere la risposta: da quando nel 2011 Donald Trump fa il suo debutto su Twitter grazie al geniale social media manager Justin McConney scopre una nuova miniera d’oro. Non solo migliaia di persone gli cinguettano ammirazione, ma chiedono a gran voce la sua candidatura alle successive presidenziali- ed è proprio su Twitter che nasceranno pochi anni dopo i cosiddetti focus groups, utilizzati dallo staff di Trump per individuare i temi più caldi per la popolazione statunitense e quindi assolutamente da portare in campagna elettorale. E’ così, esattamente grazie all’enorme numero di retweet ricevuti, che nasce l’idea del muro sul confine messicano.
Avvicinandosi alla candidatura a Presidente, oggetto della quarta e ultima puntata, la serie ci regala una serie di chicche, come l’acquisto da parte del team di Trump del copyright sulla frase Make America Great Again!, utilizzata in realtà precedentemente da Bill Clinton in campagna elettorale (e prima ancora da Reagan), il personale coinvolgimento dell’attuale presidente in una bislacca teoria del complotto sul certificato di nascita di Obama che riuscì ad arrivare su tutti i telegiornali e i talk show USA, e l’accostamento con l’ex star del Wrestling Jesse “The Body” Ventura, diventato governatore del Minnesota grazie ad una campagna elettorale populista ed anti-establishment molto simile a quella adottata successivamente da Trump stesso.

Donald Trump e Jesse “The Body” Ventura
La serie termina con le presidenziali del 2016 e, come si dice, il resto è storia. Senza fare ulteriori spoiler sulla “trama”, che vi assicuro essere avvincente come quella di un thriller politico e soprattutto arricchita dalle testimonianze degli uomini e delle donne intervistati- nonché dagli spezzoni che mostrano lo stesso Trump, senza dubbio il personaggio più magnetico, vi garantisco che Trump: an American dream sarà in grado di superare qualsiasi vostra aspettativa in tema di storie di supercattivi, aiutandovi a comprendere non soltanto l’uomo dietro la caricatura ma anche come sia arrivato a sedere dove siede. In quattro puntate dipana davanti allo spettatore un racconto affascinante per quanto inquietante, dove la cultura pop è arrivata ormai a ricoprire un’importanza tale nell’opinione pubblica da non poter che spazzare via l’erosa vita delle istituzioni “tradizionali”: una storia fin troppo nota, da conoscere per poterla comprendere.
-Lucia Cherubini