16/01/2021
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    Una nota di lettura a: “In che luce cadranno” di Gabriele Galloni

    Gabriele Galloni, autore di In che luce cadranno (collana Poesia, sezione L’anello di Möbius, direttore Antonio Bux, RPlibri,2017)

    Gabriele Galloni è un giovane poeta romano nato nel 1995. Studia Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. La sua opera prima, Slittamenti, è stata pubblicata da Augh Edizioni nel 2017, con una nota di Antonio Veneziani.

    Quando penso a Gabriele e alla sua seconda silloge, In che luce cadranno (RPlibri, 2017), associo immediatamente due nomi: quelli di Umberto Boccioni e Giorgio De Chirico.
    Questo per la mia deformazione da studiosa di Storia dell’Arte. Da amante della poesia i nomi richiamati sono altri: Giovanni Raboni in primis, Constantinos Kavafis, l’americano Thomas Stearns Eliot, l‘italianissimo Vittorio Sereni.
    Gabriele in quest’opera affronta – con la maturità che gli è consueta ma da considerarsi comunque sorprendente, data la giovane età – la sua seconda fatica, dopo Slittamenti (Augh, 2017), rivolgendosi a un tema spinoso, insolito, quello dei morti.
    Gabriele è un coraggioso; lo si vede nei lineamenti del viso, nel sorrisetto spavaldo che conserva del tenero, nello sguardo indubbiamente acuto, attento, intelligente.

    Dice bene Antonio Bux nella sua prefazione al libro: «E le orazioni, i riti brevi di queste poesie sono dedicate ai morti, e Galloni scava in loro quasi chirurgicamente, riesumando così quella sottile lastra che divide il visibile dall’invisibile, la vita dall’aldilà, con una sapienza stilistica che si staglia attraverso una metodologia impersonale, minimale, offrendo però al lettore un ossessivo, quanto puntuale rendiconto scabro, dissacrante sulla presenza dei morti che si cela soprattutto dietro una sublimazione quasi liturgica della vita stessa».  

    Da un punto di vista artistico penso a Boccioni, dunque, alla serie degli Stati d’animo. Gli addii. Quelli che vanno. Quelli che restano, in due versioni, a partire dal 1911.

    Quelli che vanno, i morti, si fanno linee oblique a sondare lo spazio nella vivacità luminosa del colore. I trapassati avanzano, in una dimensione che assorbe il contingente, il futuro, camminano sospesi in un dinamismo eterno: «I morti vanno in cerca di riposo / l’uno dell’altro facendosi carico / inutilmente; ché nel continente / si va un giorno in avanti e due a ritroso».

    Umberto Boccioni, Gli stati d’animo. Gli Addii. Quelli che vanno (1911) – [versione a sinistra: presso il Museo del Novecento a Milano, versione destra: presso il MoMa di New York]

    Quelli che restano, i vivi, hanno radici salde e si aggrappano ai pensieri, al ricordo degli andati, annaspano come alghe in un mare che somiglia ad un cimitero subacqueo. Il movimento dei vivi è tutto mentale, latente. ʺQuelli che restanoʺ sono in attesa che anche a loro sia svelato l’universo dei dispersi, con tutto il peso dell’addio a trafiggerli.

    Umberto Boccioni, Gli stati d’animo. Gli Addii. Quelli che restano (1911) – [versione a sinistra: presso il Museo del Novecento a Milano, versione destra: presso il MoMa di New York]

    Poi penso alla pittura di un intellettuale a tutto tondo come Giorgio De Chirico, nato in Grecia nel 1888 ma vissuto prevalentemente in Italia, esponente della Metafisica con Giorgio Morandi e il futurista Carlo Carrà. I suoi quadri trovano chiari riferimenti nelle opere dello svizzero Arnold Böcklin, esponente del simbolismo tedesco. Da questi mutua un’arte intesa in senso figurativo che, al di là della dimensione puramente fisica, allude a un sovrasenso che non appartiene alla raffigurazione.
    De Chirico colloca le sue figure, i suoi manichini, in spazi vuoti ed inabitabili, in un tempo immobile sintomo – piuttosto – di una dimensione tutta interiore. L’atmosfera della raccolta di Gabriele è simile: sembra di aggirarsi all’interno di una necropoli silenziosa e assolata, netta, incisa, in cui ombre allungate si stagliano come spettri scuri, frutti maturi di ciò che persiste nella memoria.

    Giorgio De Chirico, Enigma della partenza, (1914) – Fondazione Magnani Rocca, Parma.

    Gabriele rende bene l’idea di un aldilà che è più vicino di quanto pensiamo, quando questo si palesa nei sogni, nelle azioni quotidiane, nel nostro fare archeologia, come direbbe Vasta, nel tentativo di ridare ai defunti un corpo, una voce, riesumarli ancora per averli indietro.
    «Ideali amate voci / di coloro che son morti o come i morti / sono per noi perdute. // A volte ci parlano in sogno / a volte esse vibrano dentro», questi versi di Kavafis ben richiamano il nitore delle domande di Gabriele, quando così riflette: «Lecito chiedersi come resuscitino / i morti e quale voce verrà data loro in dono. E quale lingua e che corpo. […]».

    Come dicevo, c’è dentro anche Giovanni Raboni, che in Quare tristis scrive: «[…] così c’è / chi ignora e chi invece ha nel cuore / la comunione dei vivi e dei morti».
    L‘autore non fa riferimenti espliciti nel suo testo ai suoi, di morti, ma intende affrontare di petto la questione con una sorta di domanda sospesa, già evidente nel titolo, In che luce cadranno, una preoccupazione, il desiderio di interrogarsi – per trovare risposta, fissare «le coordinate per un’altra vita», quanto meno esorcizzare la perdita, lo spazio dell’assenza.

    La scarnificazione del verso, fino all’essenziale, indica la scelta di procedere per sottrazione. Da sempre, d’altronde, la morte è un venir meno, abdicare alla vita per raggiungere un altrove. Il tono assume diverse sfumature di senso: tra lo sperdimento nel farsi testimone dei trapassati, quasi un avanzare a tentoni per ricostruire un’esistenza che è, ormai, non-essere e la sicurezza della scoperta, la rivelazione improvvisa, il lampo di luce che svela la caduta e tutta la sua vertigine.

    Il confine tra i vivi e i morti si fa labile, sottile. Dice Eliot in La terra desolata: «Colui che era vivente ora è morto / noi che eravamo viventi stiamo ora morendo / con un po’ di pazienza», ed il dialogo è mormorato, i caduti si stagliano nello stesso ambiente domestico come numi tutelari, abitano le nostre stanze, come divinità in attesa di essere consultate, bisbigliano tra i gesti consueti: « […] È normale / vederli a volto coperto passare / dal corridoio al bagno alla cucina».

    Gabriele è coraggioso perché col suo libro tenta di decifrare un codice segreto, un’enigma, i «segnali / di loro che partiti non erano affatto?» come si domanda Vittorio Sereni, quelle «toppe di inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce». Ed è nella luce che Gabriele sicuramente continuerà a muoversi con la sua bella scrittura.

    *

    I morti tentano di consolarci

    ma il loro tentativo è incomprensibile:

    sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile

    della conversazione. Sanno amarci

    con una mano – e l’altra all’Invisibile.

    *

    I morti seguono un apprendistato

    severo. Per sei mesi sono semplici

    ematomi; poi superfici lisce.

    E se divengono quel che già sono

     

    è solo merito loro (non scivolano).

     

    *

    I morti continuano a porsi

    le stesse domande dei vivi:

    rimangono i corsi e i ricorsi

    del vivere identici sulle due rive.

    In che luce cadranno

    tornati alle cellule.

     

    *

    I lari protettori della carne domestica.

     

    Il morto appunta una data sul muro.

    Il morto ride, mastica.

     

    Alessandra Fichera

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