Tutti ormai, in questo potente inizio di 2018, avranno sentito parlare anche per terze o quarte voci del caso Weinstein, e delle reazioni a catena di donne del mondo dello spettacolo che, aperto il vaso di Pandora (che, attenzione, non è la femmina del pandoro natalizio), hanno iniziato a denunciare in massa molestie, abusi e stupri subiti in ambiente di lavoro. A questo punto sembrerà che il mio intento sia fare un lungo discorso sulla linguistica di genere. E non è così; qui sarebbe inutile, poiché non si intende sobillare rivalse secolari o sterili logomachie pseudo-bioetiche (e quant’altro di posticcio può pasticciare una parola). Il nostro fuoco è su altro. Senza fare una sinossi dei casi mediatici più salienti, perché non è nostro compito sensibilizzare o erudire il lettore su questo, al contrario entrerò subito in merito della nostra questione linguistica. Partiremo dal fenomeno socio-linguistico che il caso Weinstein (e sue evoluzioni e corollari) durante questi mesi, fino ad ora, ha innescato tramite social network e hashtags. Partirò con un approccio operativo, “in diretta”:
apro Twitter, digito #meetoo sul motore di ricerca interno del social. Il primo tweet che mi si squaderna davanti al viso recita così:
“#MeeToo è solo maccartismo con le tette”;
(ridacchio) e subito sotto trovo qualcosa di più articolato, in inglese:
“Triste vedere come l’anziana attrice #CatherineDeneuve con la sua faccia cadente stia cercando pubblicità ad ogni costo equiparando #stupro e #molestiasessuale con #corteggiamento. Perdita di memoria? #MeeToo #denunciailtuomaiale”
Ho volutamente tradotto tutto in italiano eccetto #meetoo, essendo quest’ultimo il punto focale e l’abbrivio della nostra analisi. #MeeToo, forma modificata dell’inglese “me too” cioè “anche io”, sarebbe frutto di una sorta di “raddoppiamento morfo-sintattico” ragionato, di coscienzioso “ipercorrettismo politico”. Una bilancia vocalica che specularmente dipinge e contrappone il femminile al maschile, rivendicando un eguale numero di lettere, stirando quel mee fino a rassomigliarlo a un muliebre urlo disperato, un accusativo riverberante un’accusa, un “me” che diventa un Io, spettacolarizzato dall’Anche. Dico “spettacolarizzato” usando la felice accezione che il termine ha nella sociologia di Byung-Chul Han che, ne La società della trasparenza, stigmatizza la tendenza attuale al denudamento totale e gratuito della persona, della sua mercificazione, sovraesposizione, a volte inconscia. Una persona si connette a un’idea, penetra un’unità culturale non perché realmente motivata da un’interesse concreto o tanto mento da una affinità elettiva con essa, ma in virtù delle possibilità di acquisire, tramite la stessa, attenzione, notorietà, o meglio ‘notabilità’, intesa come possibilità di essere notati, di stare sotto i riflettori, qualsiasi cause, condizioni e conseguenze questo comporti.
#meetoo è di fatto l’hashtag che lancia e promuove la campagna di denuncia contro stupri e molestie nel mondo dello spettacolo, ma che si estende genericamente a qualsiasi caso in cui una donna abbia subito violenze in ambiente di lavoro da parte di un uomo, un capo, una figura autoritaria di sesso maschile che abbia o perpetui comportamenti sessualmente ambigui, compromettenti, ricattanti e scorretti nei confronti di una figura (lavorativamente sottoposta o meno) di sesso femminile.
Come si può vedere dal secondo campione che abbiamo trascritto e tradotto sopra, le versioni dell’hashtag nelle varie lingue sono indicative del carattere di chi, come popolo, parla quella lingua e sono un importante termometro sociale del paese considerato.
Se prima, con #meetoo, parlavamo di “bilancia vocalica”, non è certo così per i francesi, che traducono l’hashtag in modo piuttosto pittoresco e materico: #balancetonporc, ossia “denuncia il tuo maiale”. Qui l’analisi, oltre a regalarci un sorriso, si rende particolarmente interessante. Dalla sperticata trasparenza politica e coercitiva mutualità ipercorretta sintetizzate nell’anglosassone #meetoo, passiamo al villoniano, riottoso e spregiudicato #balancetonporc, che potrebbe tranquillamente essere un motto rivoluzionario del 1789. Ma andiamo oltre, fantastichiamo, proviamo a tradurre “a naso”, “letterale”, come farebbe un ingenuo. Potremmo avere “bilancia il tuo porco”. Questa traduzione “scorretta” e apparentemente inutile rivela alcuni gustosi spunti socio-linguistici. “Balance” in francese è “bilancia” ma di fatto il verbo indica precisamente “denunciare”, e arriva a tale significato potremmo dire per sineddoche poiché rimanda alla bilancia, simbolo della giustizia. Non è certo la nostra metaforica “bilancia vocalica”!
Questo ci può rivelare il francese sotto una luce peculiare: come una lingua improntata alla concretezza, alla vicinanza parola-oggetto designato; inoltre, al senso della giustizia concreto, senza metafisiche, insomma: alla laicità. D’altro canto, per noi italiani “porco” (che pure significa “maiale”) ha ormai invaso un campo semantico completamente differente da quello prettamente zoologico. È entrato nell’uso comune per definire un comportamento morale riprovevole, precisamente nella condotta sessuale. Certo, anche in francese avrà questa accezione, tanto più che il termine è stato usato in un hashtag che spinge le donne a denunciare il loro molestatore sessuale. Ma il punto è: con quanta forza noi italiani sentiamo “porco” (parlo proprio anche a livello di suono) come termine negativo, rispetto ai francesi? Magari loro lo sentono meno? Se sì, perché? Può questo aver determinato un’influenza maggiore dell’hashtag su lettori stranieri e magari italiani, rispetto a lettori francesi?
Oltre a questi stimolanti interrogativi, capiamo anche quanto l’influenza della storia possa agire sulla lingua a differenti intensità, a seconda dei casi. Come certe espressioni apparentemente “nuove”, “inedite”, rivelino in realtà un retaggio storico non indifferente, e che questo dipende da come un popolo o una cultura assimila e percepisce le sue vicende, e come le trasmette e ritrasmette più o meno inconsciamente a livello di scrittura e di parlato quotidiani. In questa mia ultima proposizione ho utilizzato non a caso la cosiddetta “scrittura inclusiva” (prediligere sempre e comunque il maschile, “quotidiani”, in caso di una pluralità indistintamente maschile o femminile di termini qualificati, “scrittura” e “parlato”), proprio perché è stata ampiamente criticata, negli ultimi tempi, proprio in Francia. Personalmente credo nell’evoluzione del linguaggio umano e ritengo vadano adottate sempre più delle politiche linguistiche consapevoli ed orientate, in linea con gli standard internazionali; nondimeno credo che nella lingua (uso qui l’accezione saussuriana di parole, cioè lingua d’uso), a oggi, si debba prediligere la comprensione e la comprensibilità accettando l’abitudine maggiormente diffusa, capita e regolamentata, alle questioni (pur sacrosante) di correttezza etica e di genere. Questo non esclude, come si diceva sopra in termini più generali, che sia giusto perseverare su programmi linguistici che mirano a influire (a medio e lungo termine) sulla percezione della società tramite la modificazione del linguaggio vecchio e l’elaborazione di alternative più eguali e al passo coi tempi. Anzi, dirò che è proprio questo ciò che la linguistica contemporanea deve fare: sperimentare, esplorare, creare narrazioni positive dell’umanità e dei diritti umani, senza discriminazioni.
Quello che intendo quando giustifico la scrittura inclusiva è una scelta di chiarezza, è un preciso discrimine situazionale: quando c’è già una base di confusione informazionale, comunicativa e linguistica, non ci si può permettere di porre in discussione anche le poche regole rimaste e riconosciute, solo per il gusto di metterle in discussione, di sollevare nuovi problemi su altri primari, o di fare tabula rasa in nome di un pretenzioso e idòlico “bene comune”. Questo è solo un modo per sovrapporre problemi, per nasconderli uno sull’altro, per pigrizia e negligenza nel non risolverne almeno uno. Inoltre, in situazioni di discussioni mediatiche, di critica non mediata (o troppo mediata) di fenomeni sociali e politici, di commenti, di domande e risposte, di semiotica sensazionale e volta a colpire, provocare, fomentare più che comunicare un preciso messaggio, un “bene comune” non esiste, e non può esistere. Esiste solo un libero scambio di opinioni, e come tale deve essere trattato e analizzato. Ciò che di utile si può fare invece è non fossilizzarsi su una questione sola escludendo le altre, ma analizzare le cose nella (e in virtù della) loro complessità, accettando le contraddizioni interne proprio perché rivelatrici di situazioni più ampie, che coinvolgono l’antropologia, la percezione della storia, gli equilibri mondiali.
Nel primo capitolo abbiamo introdotto la teoria Sapir-Whorf, che non mi perito di eleggere caposaldo del pensiero umano, e passo decisivo nell’evoluzione della comprensione filosofica, sociologica e linguistica della comunicabilità umana; dello sviluppo delle narrative interpersonali, interculturali, internazionali. Ripetiamo dunque che il modo di agire sociale di un paese e di un popolo influisce sul loro modo di pensare e di conseguenza sul loro linguaggio. E viceversa. E questo a sua volta influisce nei vari contesti, nelle attualità a volte confusamente incandescenti, esulcerate in nuce dalla mancanza di una preventiva auto-comprensione. Mi spiego: chi genera certi fenomeni, chi avvia determinati flussi, e chi ne regola l’intensità, a volta non ha riflettuto, proiettando le conseguenze di un suo impulso irrazionale nella razionalizzata giungla propagandistica e mediatica di un mondo dove l’informazione è ormai globale e totalizzante.
Nella linguistica come nella vita, si tratta sempre di valutare il contesto. Certe parole vengono dette in determinate situazioni, da determinate persone, in determinate condizioni (storiche, sociali, e anche psicologiche). Qui entriamo nella “pragmatica” vera e propria, ovvero, come riassume assai felicemente Claudia Caffi nelle sue Lezioni, nella lingua in situazione. Come si può stabilire e studiare la connessione tra fatti semantici, strutturali, interni alla lingua, e fatti esterni ad essa legati alla cultura, alla storia, alla politica, nell’ambito di uno o più contesti comunicativi, di un agire discorsivo. In altre parole, come un sapere condiviso, collettivo agisce in una data interazione tra persone, permettendo ad esse di omettere tutta una serie di passaggi (così detta catena inferenziale)?
Oltre a usare tante parole diverse, per esprimere tanti modi di vivere diversi, è importante usarle nel contesto giusto. Potremmo vedere il contesto come il “mondo narrativo” in cui si muovono i personaggi di una fiction. Ogni personaggio ha il suo carattere, la sua struttura, le sue condizioni di esistenza, che non possono essere staccate dal mondo in cui va a vivere e sviluppare la sua narrazione. Ci deve essere un minimo di coerenza tra individuo e contesto, e ci vuole un giusto bilanciamento tra essi. E questo vale anche per le parole: non si può entrare in un bar e dire al cameriere, che ha appena rotto una tazzina, “l’imputato è assolto”, usando una precisa illocuzione dichiarativa, che, in un contesto di tribunale, pronunciata da un giudice, in un preciso momento, ha valore di atto linguistico (cioè un enunciato che serve a compiere un’azione effettiva). Chiediamoci sempre quindi, quando parliamo, dove siamo e con chi siamo. Ci aiuterà a entrare nel contesto, nel mondo della comunicazione, ed evitare di trovarci in situazioni imbarazzanti, a rimangiarci parole, a scusarci per aver offeso senza sapere, a trinciare giudizi inopportuni con termini di forza inadeguata. Ancora una volta la linguistica ci insegna quanto siano vicine parole e realtà, e quanto potere esse hanno concretamente sul mondo.
Questo è molto interessante, perché ci siamo tutti dentro; perché invece di dividere gli animi in sterili querule chiacchiere auto-referenziali, propone dubbi di portata universale, che riguardano la società e il linguaggio in quanto fatti umani, comuni a tutti noi in quanto, appunto, esseri umani. E questo è anche utile, perché porta a vedere la linguistica come una disciplina di scoperte continue, di sorprese, di meraviglia e non come una materia incomprensibile e noiosa. Una scienza che non idolatra se stessa, ma una scienza che cammina, che parla con la gente, che vede la bellezza, e non considera il mondo come un mero dato.
Insomma, divertiamoci, contestualizziamoci, studiamo la società e il suo linguaggio, senza indignarci per ciò che non si può risolvere nell’immediato, ma forti di ciò che si può capire e fare, in quel contesto. Il mio è un invito: senza pregiudizi, aprite un altro tweet!
Silvio Magnolo