20/10/2021
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    LA LINGUA CHE CI MANCA – CAPITOLO 3 – NARRATIVA O NARRATIVE?

    Credo che la felicità della nostra vita dipenda dalla narrativa che facciamo di essa. Volutamente non ho scritto racconto, o narrazione, ma ‘narrativa’. So che il nome di un prodotto, di un modus scribendi divenuto popolare e somministrabile tramite corsi a pagamento ha più efficacia se mantenuto nella forma linguistica originale. Ma lo story-telling proprio non mi va giù. Sento l’urgenza di dover adattare questa parola al contesto italiano. Anzi, andrò oltre, connotandolo, omettendone la traduzione letteraria, bruciando le tappe evolutive: “creazione di narrazioni”. Suona già molto più concreto. Sembra si possa costruire veramente qualcosa. Come costruire assieme un castello, che sia di sabbia o mattoni poco importa. Ma analizziamo il termine ‘narrativa’.

    Nell’immaginario collettivo ‘narrativa’ ci riporta immediatamente a quei tracimanti scaffali delle librerie in cui si ripercorre quasi “panotticamente” l’umanità letteraria da Cervantes a Michele Mari. Ebbene quel pannello “narrativa” ha uno splendido ma falso amico anglo-sassone: narrative. In quest’ultimo caso però narrative ha un significato molto più ampio e direi “decisivo” rispetto all’italiano.

    Narrative è il racconto della storia di un individuo o di un insieme di individui, è la voce tradotta di un bisogno e un diritto di identità, un romanzo (e non un tesserino) di riconoscimento. È l’insieme dei modi e dei contenuti che compongono, come la trame di un tessuto, la descrizione verbale di una determinata unità culturale. Perché nulla in fondo esiste al di fuori della cultura, esistono solo i criteri di discrezionalità con cui vi entriamo e la analizziamo, o con cui, al contrario, ci allontaniamo da essa o ci opponiamo a essa, de-costruendola (per andare a creare una nuova cultura o, in termini lotmaniani, una “contro-cultura”).

    Ora non voglio dire che il termine italiano “narrazione” sia inadeguato ad esprimere il concetto che esprime. Dico che, esattamente come ‘racconto’ o ‘storia’, esso non gode della stessa credibilità sociolinguistica che potrebbe avere ad esempio “narrativa”, pur nell’accezione anglosassone con cui qui vogliamo intenderla. È un fatto di percezione, prima ancora che semantico o semiotico: proviamo a prendere racconto:

    “Racconto”, ripetiamo, “racconto”. Com è, come sembra, come suona? È noioso, vetusto, limitativo, impositivo. È un vecchio che spiega ai bambini una morale già sentita, è una cosa che si ripete e ma non imprime mai un forte marchio nella memoria, un fuoco che appicchi altri fuochi. È quasi un episodio, un aneddoto, un unicum successo a una cosa, a una persona o un gruppo di persone, causalmente, in un momento qualsiasi della storia e del tempo. Quasi ci autorizza a delegare ad altri la responsabilità di ascoltarlo e capirlo, rimanendo a noi solo il gusto di apprezzarne le sfumature, i rivolgimenti, le fantasie, come una bancarella di caramelle.

    Questo ci dimostra che capiamo e usiamo le parole non sempre in virtù del loro vero significato ma anche e soprattutto in virtù del gusto, della sensazione, della percezione che hanno (e hanno avuto) per noi e su di noi. E questo è tanto più vero e importante (nel senso di grave, di quantitativamente significativo) quanto più siamo privi di alternative nella scelta delle parole. In relazione quindi, al nostro bagaglio lessicale, sinonimico. Qui parlo veramente di memoria, di erudizione. Non si tratta più di spirito critico, di intelligenza. Si tratta di imparare, immagazzinare, digerire libri. La critica richiede l’acqua del tempo, la dilatazione bollente della maturità. Non si può criticare ciò che non si possiede o non si conosce appieno, almeno nel suo scheletro, nei suoi connotati, nelle sue forme essenziali. Chiunque potrà sempre approfondire, in qualsiasi momento; ma se non si ha avuto, come un grande spintone a faccia a in terra, un’impressione di insieme, un’idea del meccanismo generale della cultura umanistica (fatta di esseri umani e di libri) allora non si avrà cassetti in cui riempire di giuste curiosità e scoperte, non si avrà la precisione necessaria per ‘criticare’.

    Passiamo ora al termine “storia”. Storia, ripetiamo, storia. Brutta, bella, sempre la stessa, abusata, incompresa, ripresa, revisionata, negata, finita. Solamente ‘storia’ richiederebbe una trattazione sociolinguistica a parte, che qui non è possibile fare. Possiamo solo constatare che questi termini hanno perso la loro freschezza ed efficacia per catacresi e abusione, tendenze sempre più diffuse nella lingua italiana. La mia proposta è di essere più coraggiosi nella lingua e nel proporre neologismi, osare piuttosto che usare.

    La ricerca dei sinonimi di una parola, lungi dall’essere una mera operazione meccanica di convenienza linguistica per evitare la ripetizione, si configura invece come un arricchimento emotivo, un ampliamento della coscienza e, in ultima istanza, come una scelta politica. È incredibile come l’esperienza linguistica di un italiano sia così strettamente interconnessa con la sua vita privata e le sue abitudini familiari. Fin da piccoli si fa i conti con le scelte dei genitori, con il loro modo di veicolare la lingua e il suo livello di contaminazione con il dialetto dei nonni. L’esperienza non sfiora solamente la diafasica e la diastratica, ma anche la sfera personalissima, irripetibile e insondabile dell’apprendimento e dell’assimilazione di una lingua che si delinea come “artefatta”, nel senso che include una forte letterarietà endemica (da apprendere librescamente), mista a una parlata “standard”. Questo famoso italiano “standard” (che presenta in definitiva tratti molto simili all’italiano dei cosiddetti “semicolti” del quattordicesimo secolo) è di solito il punto di partenza di una serie di innesti che si possono compiere, durante gli insegnamenti elementari, o alle scuole medie, in base alle letture, alle scelte personali, alle politiche linguistiche adottate più o meno consciamente dagli insegnanti. Avere un vocabolario ampio, un linguaggio che diciamo “forbito” (in quanto letteralmente “discerne, distingue”, divide in unità discrete le varie sfumature della lingua) non è necessariamente sinonimo di asfittica erudizione, di conservatorismo giocondo e paroliere, ma è sinonimo si sinonimi, di creazione di nuove e più efficaci narrative, e descrizione di emozioni sociali che emergono dal futuro e già sono il nostro presente, nella nostra bocca.

    Silvio Magnolo




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