28/10/2020
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    “IL POSTO” DELLE PAROLE

    Spesso la critica cinematografica, oltre a rovinarti il finale di un bel film, o a distorcere completamente il film stesso per puro divertimento intellettualistico, rivela gravi carenze di fondo. Nell’analisi di una pellicola dovrebbero trovarsi spunti di semiotica, appunti più o meno tecnici sulla scrittura dei dialoghi, del soggetto, della sceneggiatura, giudizi su come è stata impostata la regia, su come sono state montate le scene, sulla colonna sonora e via dicendo, invece troviamo i soliti posticci sproloqui su quanto è poco originale il film, su quanto, di contro, è arretrata l’Italia; e le asfittiche logomachie di ragazzini che vomitano comparazioni presuntuose e senza metodo, subito dopo aver divorato l’ultimo abbonamento a Netflix che ha regalato loro mammina.

    Uno scritto di Antonio Gurrado, pubblicato sul sito de Il Foglio, recensendo “The Place” di Paolo Genovese, esordisce:

    <<Spoiler: “The Place” è un film tomista, molinista, insomma cattolicissimo>>

    Tralasciando i due disgustosi anacronismi iniziali, scritti evidentemente per quella foga di ostentazione erudita che ormai conosciamo (e riconosciamo) troppo bene, si apprezza la perseveranza con cui l’autore mantiene la coerenza di metafora, improntata sulla pur sensata interpretazione di “The Place” in chiave religiosa (cattolica); ma questa coerenza costringe l’analisi in un grottesco fine a se stesso, e la recensione assume i connotati di una parodia, o di una predica di Savonarola scritta tra i roghi digitali del 2017. Insomma, quella che ormai chiamo “sindrome  di Francesco Gabbani”, ovvero accostare qualunquisticamente parole (parole-chiave, altamente diffuse e indicizzate) o concetti famosi o strani, lontanissimi tra loro, per il solo gusto spettacolare, ostensivo e anti-democratico di colpire un pubblico medio non ancora avvezzo a certi ragionamenti o conoscenze, colpisce anche la critica cinematografica.

    <<“The Place” deve sperare nel mercato estero. Non è un film per una nazione talmente refrattaria alla responsabilità individuale da credere che, se uno è cattivo, non possa farci niente: una nazione sedicente cattolica che, pur di trovare scuse alla propria indolenza spirituale, protestantizza e luteraneggia.>>

    Non c’è nulla di più frustrante per un linguista che accorgersi di non poter esprimere adeguatamente un concetto nella propria lingua, mentre sta scrivendo. In questo caso è proprio un senso di  deferente disprezzo, di amorevole nausea. Come a dire: “ciò che hai appena scritto mi fa rivoltare le viscere talmente tanto che quasi ti ammiro”. Questo riassume genericamente tutto ciò che è successo nella mia testa mentre leggevo altre recensioni e commenti su “The Place”. Premetto che non sono un critico cinematografico, né ambisco a diventarlo. E non voglio forzare un film alla mia visione tirannicamente linguistica, ma credo che il film di Genovese, al di là degli inevitabili rimandi alla questione della religione, dell’etica, della responsabilità individuale, del libero arbitrio (o assenza dello stesso), ponga innanzi tutto una forte attenzione sulle parole, sull’uso più o meno corretto e preciso di esse (sia parlate, sia scritte). Trascrivo subito alcuni esempi concreti:

    “Trafitti… è una parola curiosa!” dice Angela (Sabrina Ferilli), stupita del modo in cui il protagonista (Valerio Mastrandrea) definisce le persone che vanno da lui ogni giorno.

    E ‘trafitti’ è effettivamente una parola curiosa, in un film italiano, dove non c’è stato bisogno di adattamento per il doppiaggio. L’uomo avrebbe potuto dire ‘afflitti’, ‘tristi’ o ‘costernati’, al limite. Ma usa ‘trafitti’, ed è significativo, poiché l’aggettivo evoca e connota un ventaglio di significati tutto particolare. Immaginiamo, a più livelli, l’impatto che questa parola ha, nella finzione, su Angela, la zelante e malinconica cameriera; sull’economia generale del film in quanto scelta stilistica attinente alla scrittura dei dialoghi; e infine sul pubblico, in quanto destinatario del messaggio potenzialmente veicolato dall’uso della parola “trafitti”. Dico ‘potenzialmente’ proprio perché, anche se non avete mai visto il film, potete tranquillamente lasciarvi pervadere dagli immaginari che il termine evoca, e che sono diversi e imprevedibili a seconda delle varie soggettività. Vi invito in quanto lettori a farlo. Per rompere il ghiaccio, ‘trafitti’ mi ha suggerito immediatamente uno scenario religioso, cristiano, di senso di colpa; ma anche tutta la sequela antropologica di icone e immagini sfregiate, il rapporto tra arte, scultura e illusione (o paura) che l’opera prenda vita. In generale, è una parola forte sia come suono, sia come potenzialità di significati e di rimandi.

    “Sì sono queste le cose importanti Luigi, i tuoi pensieri” dice inoltre l’uomo misterioso, giustificando la sua mania di appuntarsi sempre tutto, di registrare con precisione i pensieri, le sensazioni che le persone provano, e che parole usano per descrivere tali sensazioni.

    Non è mai facile dare una parola diversa a ogni minima sfumatura della realtà, tanto più se si tratta di emozioni. Noi che parliamo italiano abbiamo un record storico di difficoltà, in questo campo. Ci troviamo in una condizione per cui spesso dobbiamo fare i traduttori di noi stessi. Abbiamo in testa (nel migliore dei casi) il termine inglese e dobbiamo tradurlo in italiano. Sovente neanche ci riusciamo. In gran percentuale dubbiosi della correttezza grammaticale e sintattica di ciò che stiamo dicendo o scrivendo, sperimentiamo una costante e quotidiana incertezza linguistica, che ci costringe a ri-definirci continuamente, a inventarci ad hoc un vocabolario e una fraseologia a seconda del contesto in cui ci troviamo a esprimerci. E questo è normale, come è normale cambiare registro a seconda del destinatario cui ci rivolgiamo. Ma qui non si tratta di adeguatezza al contesto, di norme di maggiore o minore formalità; il parlante italiano vive una confusione perenne. Un dramma diafasico che si ripete, e paralizza; impedisce di divulgare, di interpretare, di narrare. È attraverso la narrazione (personal narratives) che si può entrare in contatto con ciò che si descrive e con il pubblico cui la descrizione è destinata. La chiave è proprio questa narratività, termine importantissimo, ristretto in italiano al significato ancora a mio avviso fortemente monarchico di “complesso delle strutture narrative oggetto di studio della narratologia, nel linguaggio della critica letteraria”. Sarebbe utile ridefinire certi termini tecnici, ampliandoli (e riabilitandoli), importandoli in campi sociologici in cui potrebbero colmare lacune terminologiche e di significato (e le relative lacune del significante). Intendo dire che le parole informano la realtà al punto che se manca un termine, spesso viene a mancare, a morire anche la realtà fattuale che il termine designa. Spesso, la varietà terminologica con cui si descrive la realtà è direttamente proporzionale alla chiarezza, alla serenità, e alla felicità con cui si vive la realtà stessa. È stato studiato che molte patologie e disagi emozionali sono strettamente correlati alla povertà di vocaboli con cui si esprimono le varie sfumature di una o più emozioni.

    In “The Place” il rapporto tra sentimenti (o ‘passioni’, in termini greimasiani) parole e azioni è molto serrato. Per questo parole e dialoghi sono fondamentali e ben calibrati nel film. Ed è anche la ragione per cui sono rimasto sconcertato dinanzi alla sequela di critiche infruttuose, tutte basate sul triste univoco orientamento “Netflix VS Cinema Italiano”, che riduce “The Place” a una serie di espedienti ben congegnati, ma già visti. Si dà per scontato che un film debba essere basato necessariamente sulle sorprese, sulla grandiosità, e sulla creazione della suspance. Anche a discapito del contenuto, della componente “poetica” della trama, ossia dei tempi, delle pause, della narratività, appunto. Siamo talmente assorbiti dal mainstream, dal “mettere a nudo”, dalla trasparenza culturale, da non accorgerci che ormai abbiamo una cieca fedeltà in modelli spettacolari solo per il fatto che sono, appunto, spettacolari. Attribuiamo inconsciamente più autorevolezza a pellicole che sono tecnologicamente più sviluppate, tecnicamente più invidiabili. Questo inficia la nostra capacità di giudizio, trasformandolo in pre-giudizio, e limita la libertà di movimento del nostro pensiero.

    “The Place” è un film semplice e rigoroso, che fa riflettere sul rapporto tra parole e azioni. Finché le persone non saranno in grado di usare le parole, non saranno consce del legame tra parola e azione, ci sarà sempre bisogno di “depositari del sapere”, di figure ieratiche, ibride tra il dio e lo psicanalista. Ci sarà sempre bisogno di persone che sappiano ascoltare, alla periferia del vivere sociale. Il focus del film è questo. Il protagonista ha una dote innata: chi va da lui a esprimere un desiderio riesce a realizzarlo se compie l’azione che l’uomo misterioso ha assegnato a lui (o a lei). Prima di tutto però questo “genio” sa e deve ascoltare; non giudica, non interrompe, appunta minuziosamente anche le sensazioni delle persone (cui evidentemente, a differenza della maggior parte di esse, sa dare un nome). È un eroe che impersona in sé una carenza collettiva, una falla del sistema sociale, più che una mancanza di fede, o una crisi di valori; la morale, la filosofia, la teologia a mio avviso non hanno un rilievo urgente qui. Il punto è che la società non funziona, e le persone funzionano male. Soffrono di noia, di una solitudine auto-indotta da un’unica causa: l’incapacità di comunicare. Riducendo all’ablativo: non saper parlare la propria lingua. Le persone vanno da ‘lui’ perché lui stringe accordi ben precisi con loro, e collega i loro desideri a qualcosa di concreto, di preciso, a un’azione. Lega il significato al significante, assicura una coerenza semiotica ai suoi pazienti (o meglio allievi). Il fatto che l’azione da compiere sia il più delle volte negativa può essere collegato al fatto che l’uomo è più colpito (specialmente in questa epoca) dagli eventi brutti, dalle notizie tragiche, dalle disgrazie, che dalle cose positive, dalle narrazioni positive. O che la società del benessere e della dittatura del bene abbia soppresso ogni spinta alla lotta, alla istintuale resistenza umana.

    Ma il punto, ribadisco, non è morale. È educativo. Non siamo stati educati a parlare bene la nostra lingua. E questo purtroppo è visto come un dettaglio trascurabile, rispetto ad altre questioni più importanti, come ad esempio la politica. Dovremmo ricordarci e ripeterci che le due cose sono inscindibili. Questo vale per tutti i credo. Significativo in questo senso lo scambio di battute tra la suora e il protagonista:

    “Ma lei in cosa crede? Lei crede in Dio?”

    “Io credo nei dettagli”

    Parlando nel dettaglio, appunto, il problema principale della lingua italiana oggi, a mio avviso, è la forte tendenza alla catacresi. Ossia, usiamo una stessa parola per designare più significati, anche quando esisterebbero termini sufficienti a differenziare tali significati. In poche parole, usiamo poche parole. E lo facciamo per pigrizia, per euristica, ma soprattutto perché fin dalle elementari nessuno ci ha mai insegnato a leggere il vocabolario della nostra lingua. Nessuno si è mai premurato di farci appassionare alla nostro linguaggio, a farci sembrare quei mattoni di peso sovrumano (degni di schiavi egizi addetti alle piramidi) un pezzo fondamentale per la costruzione della nostra vita. Un gioco per imparare a giocare meglio, a partecipare (vincitori o vinti) in modo consapevole, e fiero. Un compagno di viaggio impegnativo, di quelli un po’ ciccioni e sudati, ma fedeli e sempre uguali a se stessi, il classico “pilastro incrollabile”; un serbatoio di forza a cui attingere. Il potere della nostra identità. E mentre dopo la scuola correvamo al catechismo, alleggerendo gli zaini per farvi entrare uno sparuto e mal scritto sommario di qualche vangelo, non ci rendevamo conto che il modo più bello e utile per stare insieme e capirci sarebbe stato leggere assieme qualche pagina del proibitissimo Vocabolario della Lingua Italiana. Ridere di qualche parola strana, buffa, magari sconcia! Trovare nuovi significati, nuovi e diversi modi per descrivere un mondo già complesso da interpretare e rispettare, anche senza ulteriori confusioni religiose. Chissà quale pericoloso sconosciuto avremmo potuto incontrare, leggendo! Quale falso amico! Il rischio sarebbe stato soltanto chiarirsi un po’ meglio le idee. Portandoci il vocabolario dietro, avremmo avuto la schiena più pesante, ma di sicuro la testa più leggera, più luminosa. Forse sarebbe stata quella la nostra sacra scrittura, per farci scrivere meglio. Sarebbe stata la nostra “fede”, nel senso letterale di “fiducia”, in noi stessi e nella realtà; sarebbe stata la nostra voce più autentica. Avremmo imparato a parlare l’italiano in modo più preciso, e più divertente. Saremmo lì, sul pezzo, a parlare la nostra lingua e capirci tra di noi. Non staremmo lì, indecisi, a chiederci il “senso”. Perché il senso lo avrebbero già le nostre parole. E non saremmo costretti a rimpiangere, ad attingere disperatamente ad una laicità perduta, che abbiamo ripudiato, all’onestà dei nostri significati ormai distorti, alla libertà delle nostre interpretazioni ormai a senso unico, e puzzanti di pregiudizio. Non saremmo costretti a convergere tutti in un unico bar, in un’unico “posto”, per trovare un senso; non saremmo costretti alla rigorosa unità di luogo e coerenza semiotica di un film per riflettere su quanto ancora siamo infantili (e decisamente sforniti di strumenti).

    Come si è potuto leggere finora, non ho fatto critica cinematografica, non ho rovinato il finale a nessuno. Magari ho appesantito un po’ l’aria, ma non aspettatevi scuse. Era proprio il mio intento. Se siete arrivati fin qui capirete che di “The Place” ho voluto soltanto aprire qualche cassetto, srotolare alcuni dettagli a cui tengo. E che le parole, sì, sono quei “famosi dettagli a cui tengo tanto”.

    Silvio Magnolo




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